martedì 11 dicembre 2012

La nostra ignoranza è la causa del disprezzo verso tutto ciò che è nostro

Sabato scorso sono stato invitato da un amico a vedere il prof. Gigi Sanna, che ha tenuto una bella conferenza all'interno della manifestazione Emmas.

Indubbiamente l'argomento è più che affascinante. I nuragici scrivevano, ho le prove, dice Sanna. Segue un'ora ininterrotta di  analisi di dati, foto, correlazioni con le lingue di ceppo semitico che si parlavano nel bacino del mediterraneo oltre 3000 anni fa.


Decine di iscrizioni, foto, spiegazioni meticolose. Ma anche tanta rabbia per non essere stato ascoltato negli ambienti accademici, per non avere i fondi necessari per poter affrontare seriamente campagne di scavi, per non poter avere accesso ad archivi, a dati che potrebbero magari anche smentire la teoria, ma almeno provare in maniera metodica e con fondi certi a studiare quella che potrebbe essere una "scoperta" paragonabile a quella dei nuraghi.


Scrive Gianfranco Pintore
"La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna."

Personalmente la vedo in maniera leggermente diversa da Pintore: l'Irlanda divenne una repubblica indipendente pur essendo un paese estremamente povero, ma non nego che nessi tra sviluppo economico e presa di coscienza indipendentista ci siano, e siano stati il fattore scatenante nella creazione di una nazione, gli Stati Uniti sono in questo l'esempio più lampante.

Ciò che mi spaventa è l'indifferenza, colossale, che in Sardegna si ha su questi aspetti che potrebbero portare, oltre che conoscenza, anche significative ricadute economiche. Ma forse a noi interessano maggiormente i Vikinghi, troviamo più affascinante Stonhenge.Come ad altri, anche a me viene in mente in questi casi la nota frase di Simon Mossa,  che riferendosi alla storia della Sardegna, affermava che "la nostra ignoranza è la causa del disprezzo verso tutto ciò che è nostro".  

L'ignoranza e l'indifferenza, unite ad una certa dose di invidia. Queste sono le malattie di cui soffriamo noi Sardi. Guarendo da queste, forse, potremo aspirare anche al "resto".



domenica 4 novembre 2012

il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione

Adriano Sofri ha recentemente scritto a proposito di due notizie apparentemente tra loro distanti: l'assoluzione  di Niki Vendola e l'annunciato licenziamento di 19 metalmeccanici di Pomigliano.
Sono due notizie che parlano di una Italia dove le regole vengono ridotte a carta straccia, dove l'attacco alla legalità o la noncuranza della legge è la cifra sia del potere politico che di quello economico.


Eppure i due fatti sono figli della stessa matrice: il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione. Vendola ha agito come si agisce nelle democrazie occidentali (quelle vere). Si sarebbe dimesso perchè una regola non scritta ma comunemente accettata impone alla persona per bene di farlo. Per la sua rispettabilità e per quella dell'istituzione che rappresenta.
Ed è incontestabilmente una eccezione.


L'azienda osannata da tanti politici dalla fedina penale più o meno immacolata che ignora lo statuto dei lavoratori è l'ennesimo esempio che il potere economico ha a sua volta una malsana idea del diritto, che combacia con quello del più forte, o ricco, in barba al rispetto delle leggi.

Ecco, quando vengono a mancare i pilastri di questa rispettabilità intesa come stato, il concetto stesso di stato vacilla.E l'Italia si trova, oramai da troppo tempo, in questa oscena situazione.

Vale davvero la pena per i Sardi di considerare questa come la nazione dove è meglio vivere?


martedì 16 ottobre 2012

Sulcis come la Ruhr? Certo, se i nostri politici fossero tedeschi..o sardi?


Premessa
Per chi come me non è del Sulcis, e l'ha frequentato se non per turismo, è forse troppo facile e presuntuoso parlare della più complessa ed ampia realtà di interazione dell'industria con società e territorio presente in Sardegna. Mi rendo conto che bisogna nascerci, respirarne l'aria e riconoscerne i rumori, per capire davvero cosa vuol dire una realtà più vicina alla Germania di un tempo, o forse oggi più al Brasile o la Cina o il Sud Africa, piuttosto che al vicino Campidano, le nostre città costiere o alla costa della Gallura, in cui tanti sulcitani si sono trasferiti in questi ultimi 20 anni.
Perciò io scriverò da chi capisce solo in parte quello che si prova oggi nel Sulcis. Ne sono lontano geograficamente come l'Inghilterra lo è dalla Nuova Zelanda, se la Sardegna fosse il mondo (ed in fondo per me lo è). 
Ne sono lontano perché non ho parenti che hanno lavorato in miniera, perché ho sempre lavorato nei servizi invece che nell'industria primaria. Mi limiterò a fare delle considerazioni su come ci siano delle cose accadute in un "altrove" non troppo lontano né nel tempo né nello spazio che potrebbero, dovrebbero, far riflettere una classe politica buona solo ad andare a Roma col cappello in mano, a dei sindacalisti capaci ad organizzare cortei e manifestazioni ma meno, molto meno, a dare soluzioni diverse ai problemi che conoscono, a dei lavoratori che usano l'arma della disperazione perché con il lavoro ed i sacrifici non è servito a nulla.

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Partirò da un presupposto: sono certo che chi vive nel Sulcis è convinto che casa sua si trovi nel luogo più bello del mondo. E' una cosa comune a noi Sardi. Uno di Tonara potrà riconoscere che il mare di Cala Gonone è bellissimo, ma non lo scambierebbe col bosco di Santu Giaccu. 
E' il riconoscimento di questo presupposto la base di tutto il resto.

Il territorio del Sulcis è stato sfruttato come nessun altro in Sardegna. E' venuto il tempo in cui chi ci vive tragga il suo sostentamento non dallo sfruttamento ma dalla sua  valorizzazione. Come fare non è né semplice né immediato, e necessita di un cambio di mentalità non solo da parte dei politici ma anche e soprattutto degli abitanti del Sulcis.

L'industria pesante in Europa sta scomparendo. Di questo però nel Sulcis pare non se ne siano accorti. Non se ne sono accorti in primis i lavoratori che fanno manifestazioni per chiedere allo stato (che poi saremmo anche noi, loro conterranei) soldi, soldi, e poi soldi. Una cosa normale, si dirà, nel momento in cui c'è una crisi. Bene, ma questa non è una crisi temporanea ma strutturale. 
Ma siccome siamo nostro malgrado in Italia, il paese dell'eterna emergenza, ciò viene vissuto non come una situazione da affrontarsi in maniera strutturale, ma con soluzioni temporanee ma costose.

Il Sulcis non è l'unica area italiana con importanti dismissioni industriali ma possiede, questo oggettivamente, un territorio eccezionalmente ricco in termini naturalistici. Inoltre l'area non si trova in una remota regione dell'Indonesia, ma in un'area a un'ora d'auto da un aeroporto internazionale, che lo collegherebbe con i principali aeroporti italiani ed europei in un due ore o poco più. Questo consente realisticamente di poter raggiungere il Sulcis in 3 ore anche da aeree come Londra, Parigi, Francoforte, Stoccolma o Madrid. 

Ma come far diventare un'area apparentemente con poco appeal turistico meta di discreti flussi di visitatori, che non vuol dire inglesi in maglietta ed infradito ma anche turismo naturalistico, culturale, congressuale?
- Con un significativo investimento in termini di bonifiche e riutilizzo di quanto esistente
- Con una dettagliato percorso di riconversione delle risorse 
- Con una importante promozione turistica

Niente di nuovo, urlerà il sindacalista dal suo megafono.
Niente di nuovo, dirà il politico sui microfoni dell'emittente locale.
Niente di nuovo, tossirà l'operaio mentre si accende una sigaretta.
Ma allora, perché si continuano a chiedere soldi (molti) per mantenere posti di lavoro (sempre di meno)?

Più di vent'anni fa questa stessa domanda fu fatta dai politici della Ruhr, in Germania.
Ma il loro problema aveva dimensioni diverse: 6000 ettari di aree industriali dismesse in una zona popolata da oltre 5 milioni di abitanti. 
Pertanto con proporzioni enormemente maggiori.
Eppure oggi i risultati sono visibili, anche senza visitare di persona i luoghi.

Una gigantesca ferriera, la Meiderich, è diventata un parco, il Landschaftspark, 180 ettari dove "natura, patrimonio industriale e di un impianto di illuminazione affascinante si combinano per creare un parco diverso da qualsiasi altro al mondo. I nuovi spazi verdi e le cattedrali antiche dell'industria vi invitano, sia da soli o come parte di una visita guidata, per esplorare il sito che, nel corso di più di dieci anni, è stato rivisto per creare un nuovo stile di multi -funzione di parco." si legge nella presentazione ufficiale online. 

Il gasometro di Oberhausen  ha subito una riconversione che lo ha reso una location per eventi staordinaria: "una sala circolare con una superficie di più di 3000 metri quadrati si apre al visitatore. Due scale in acciaio portano sul disco al centro del quale è stato installato un palco rialzato con un diametro di 20 m. Parti della struttura di supporto è diventato uno stand di 500 posti. In totale, il Gasometro ha pertanto un settore che può essere utilizzato per eventi che coprono più di 7000 metri quadrati." 

La miniera di Zollverein, oggi patrimonio Unesco, è una fondazione privata che gestisce un business center che fornisce servizi alle imprese e persino un'area con lo shop. Guardando i volti del loro staff si vedono volti con ben più di 50 primavere alle spalle, segno che evidentemente hanno riassorbito personale della miniera. Al suo interno il Red Dot , uno straordinario museo dedicato al design.

La rifondazione della Ruhr però non è stata soltanto una operazione di riconversione industriale a fini di servizi per le imprese , ma uno straordinario movimento che ha permeato fortemente la cultura dapprima di quell'area, rilanciandola nellla realtà tedesca ed infine europea. Tant'è che 2010 la Ruhr è diventata una capitale europea della cultura, con una serie di eventi lunghi un anno che hanno portato nell'area 950.000 visitatori.

Inoltre, sempre dal punto di vista culturale, il lavoro nell'industria è il soggetto del museo Dasa di Dortmund che è  il più grande del mondo proprio nelle esposizioni dei macchinari industriali, con aree di attrazioni per visitatori di tutte le età. 
Cultura che è ancora protagonista nel Ruhr Museum, che ha visto più di 500.000 visitatori nel suo primo anno di attività sia alla collezione permanente di opere sia alle mostre temporanee del museo.

Inoltre sono state costruite piste ciclabili per 770 km, ricostruiti porti come quello fluviale di Duisburg, completamente riprogettato da Norman Foster come borgo residenziale.  

Un'area del genere, così lontana dalla nostra immagine del turismo, ha invece un efficiente ente di promozione turistica, con un sito bilingue completo di sistema di prenotazione per gli hotel delle varie aree di quella regione.

Un particolare tutt'altro che irrilevante è che questo progetto nasce nel periodo per di più dove quel paese aveva a che vedere con la maggiore opera di ricostruzione dalla fine della seconda guerra mondiale, ovvero inglobare l'ex Germania comunista, pertanto con una particolare attenzione alle spese.

Seppure con un'economia non a livello di altre tra le più ricche della Germania, la Ruhr è l'esempio migliore che mi possa venire in mente da proporre ad un Sulcitano.
Lo stato ha creduto reinvestire in ambiente e lavoro avrebbe dato i suoi frutti.  Un ottimo esempio, ancora, è quello di Karl Ganser  che ha curato tutto il progetto della riqualificazione dello Emscher Park , dove ha sostanzialmente osservato solo due parametri: creare lavoro e riqualificare il territorio. 

Creare lavoro e riqualificare il territorio: qualcuno, altrove, ci è riuscito.
Io so dentro di me che noi Sardi non siamo inferiori a nessuno.


E questo dovrebbe a mio avviso spingere i cittadini del Sulcis ad eleggere loro i rappresentanti in base a questi parametri quando sarà il momento di votare i loro rappresentanti. Diffidare del tale dall'accento milanese e con l'amico russo, o il solito politico romano col suo codazzo di sindacalisti locali. Dare ascolto a chi ti parla di progetti concreti, percorsi percorribili, meglio se parla la lingua che comprendi fino in fondo.

Cent' anni fa il Sulcis ha portato benessere e sviluppo, sociale ed economico, a tutta la Sardegna. Credo davvero che solo chi ci vive ora sia in grado di replicare quanto fatto allora.


venerdì 14 settembre 2012

Trasporti e crisi: perché i conti possono tornare a sorridere


I dati relativi ai trasporti da e per la Sardegna, da qualunque parte li si guardi, dicono 2 cose:  il traffico aereo cresce mentre quello marittimo scende.
Se questi dati fossero analizzati così senza un ulteriore analisi, verrebbe da scrivere la solita "veemente protesta contro i ladri di Tirrenia" (si pronuncia Onorato). 
Non che questo non sia vero, ma anche per gli aspetti relativi agli aeroporti, occorre fare dei distinguo.
Se infatti l'aeroporto di Olbia ha capitale fondamentalmente privato, quelli di Alghero ed Cagliari sono pubblici e con bilanci pesantemente in rosso. Tanto per dare un'idea, questi aeroporti senza un fiume di denaro pubblico fallirebbero immediatamente.
Solo l'aeroporto di Alghero ha recepito nel 2010 per legge regionale ben 10 milioni, ma il dissesto finanziario di quell'aeroporto ha radici antiche ed è figlio di una gestione che ha preferito dopare il mercato con contributi milionari a Ryanair, il tutto evidentemente sulle spalle dei soliti contribuenti.

Insomma, la situazione marittima è pessima, con un calo del 23% nei porti del nord Sardegna in termini di passeggeri. Quella aerea è buona ma "dopata". 

Ma allora che fare: l'ennesima manifestazione a Roma con fischietti e bandiere o riprendere possesso del proprio destino? Evidentemente propendo per la seconda ipotesi.
E allora, perché semplicemente non copiare quanto si fa all'estero?
E' sufficiente prendere un traghetto da Santa Teresa ed andare in Francia dove se vai in aereo o in nave devi sapere che..

- Lo stato decide delle tasse aeroportuali, le più alte d'europa Se aprite il link e fate caso l'unico scalo dove le tasse non sono alte è Beauvais che sta a 80 Km da Parigi ed è stato scelto per far atterrare i low cost. Il messaggio è chiaro: vuoi atterrare vicino alle aree più importanti? Paga di più. Ti interessa spendere meno? L'aeroporto non è centrale.
Perché in Sardegna non si eliminano i vettori low cost dai tre principali scali e li si dirotta ad Oristano (peraltro ad un ora di macchina da Cagliari e Nuoro e poco più da Sassari)?
1) Si aprirebbe una nuova prospettiva occupazionale e si darebbe una importante occasione di sviluppo al turismo del centro Sardegna.
2) Contestualmente, si ripianerebbe in breve tempo le perdite create dalla scellerata politica di sovvenzione a Ryanair (che in Francia evidentemente non riceve contributi). 

- la compagnia aerea francese, Air france è una delle poche in salute del mondo, ha una importante componente statale (quasi il 19%, ma è stata anche del 54%) che le ha consentito di acquistare prima KLM e poi una quota consistente di Alitalia.
In Sardegna una compagnia aerea la abbiamo (è peraltro la prima azienda sarda privata per tasse pagate), ed ha prodotto utile per quasi quarant'anni prima di inglobare idrovore di denaro quali Eurofly ed Air Italy. Si potrebbe fare con essa (in piccolo) lo stesso procedimento che Air France ha avuto in Francia: 
1) presa una partecipazione importante nella newco (di cui peraltro in passato l'azionista di Meridiana aveva già parlato con l'attuale presidente della regione Sardegna), organizzare il traffico da e per l'Italia con tariffe calmierate ed identiche a quelle del trasporto ferroviario, ma che hanno traffico in maniera naturale (es. Roma-Cagliari). Si genera utile mantenendo gli standard di servizio e le frequenze nel periodo invernale e si aumentano le frequenze e gli aeroporti serviti nella stagione estiva. L'Alitalia ha interessi minimi in Sardegna, ed un accordo di Code-Share (un accordo tra linee aeree nel quale un vettore commercializza un servizio e pone il suo codice sui voli di un altro vettore) risolverebbe facilmente il problema commerciale con quel vettore.
2) apertura al mercato per le destinazioni extra Italia con controllo degli slot (permessi di atterraggio) che consentano reciprocità con gli altri paesi. Per es.: se si autorizza un vettore Inglese a operare una tratta da Alghero a Londra deve essere dato uno slot nel medesimo aeroporto e con orario analogo al vettore sardo.
3) Se si lavora in Sardegna si debbono rispettare le nostre leggi: Ryanair infatti ha in Francia una presenza minima 

Per mare la situazione è paradossalmente persino più facile.
- il sistema portuale francese è sì privatizzato ma è sotto il controllo di un consiglio di sorveglianza dove vi è lo stato, le comunità territoriali (un ente statale via di mezzo tra il dipartimento e la regione) e la camera di commercio. E' sufficiente rendere i porti sardi amministrati analogamente da quelli francesi (pertanto focalizzando la gestione sull'interesse della collettività) ed evitare macroscopici conflitti di interesse come quello del porto di Olbia, il più grande della Sardegna e sostanzialmente in mano ad Onorato.  
- la regione detiene la Saremar, i cui bilanci sono in ordine  e che diverrebbe analogamente al vettore aereo il volano del trasporto marittimo. Sarebbe sufficiente che questa compagnia di navigazione si confrontasse contro una compagnia che è palesemente aiutata dallo stato italiano  sebbene operi con le tariffe che tutti conosciamo. La Tirrenia continua a percepire aiuti dallo stato italiano? La società di gestione dei porti applica solo a Tirrenia delle commissioni che vengono "girate" a Saremar che, garantendo come già fa ora tariffe inferiori a Tirrenia, nel breve termine la soppianterebbe nell'operatività delle tratte sulla Sardegna.

Insomma: basta operare nell'ambito del proprio interesse (nazionale). 
Copiare i francesi, che sono nell'unione europea proprio come noi, ma fanno quello che meglio credono.
Come d'incanto il deficit di bilancio regionale relativo al trasporto aereo diventa una voce di attivo (vd. tasse aeroportuali) ed una significativa risorsa occupazionale (i dipendenti di un nuovo aeroporto e l'indotto che esso genera/maggiori potenzialità per le strutture ricettive del centro Sardegna/aumento di dimensioni e dunque dipendenti del nostro vettore aereo), mentre per il traffico marittimo sarebbe sufficiente una regolamentazione che evitasse i conflitti di interesse (italiano) in cose che riguardano la Sardegna.

Si rischiano procedure di infrazione dell'antitrust europea? La risposta da dare è: si, e allora?
Conviene  come ci ha insegnato un ex presidente italiano.
Conviene  come ci insegna un paese che vuole che le proprie leggi siano rispettate
Conviene a noi sardi, che potremmo avere solo benefici da una situazione che, per una volta, si decide di forzare. Perché conviene pagare una multa di un milione di euro e farne guadagnare dal proprio Stato a decine. 

Se hai letto questo articolo non ti saranno sfuggiti due presupposti non scritti.
1) I governanti sardi fanno gli interessi dei Sardi.
2) I Sardi hanno governanti che hanno un potere di sovranità piena nell'ambito economico.  
Hai ragione, forse è il caso di "scendere dalla macchina", come nella barzelletta di Benito Urgu. Eppure io in quella macchina ci vorrei davvero salire e guidare, guidare, guidare. Prossima fermata? Soberania.

giovedì 16 agosto 2012

Un po' Sardi e un po' no. Forse un po' troppo comodo.

In questa foto, che ho scattato dallo schermo del televisore, a mio avviso si evince uno spaccato del giovane sardo di oggi. Infatti chi non è italiano penserebbe che quei due ragazzi tifano due nazioni diverse, confondendo magari la bandiera sarda con quella georgiana.
Certo, quei ragazzi tifano un atleta italiano. In fin dei conti sono italiani: "linguisticamente", "culturalmente", "politicamente". Ma sono anche sardi, per gli stessi motivi (mi permetto tutt'al più di aggiungere "geograficamente").

§ Linguisticamente il giovane sardo capisce la sua lingua quasi sempre, ma sempre meno la parla. La tradizione orale e non scritta è stata una disgrazia per i nuragici, dei quali sapremmo oggi ben di più se essi avessero avuto una qualche forma di scrittura. Oggi non è molto diverso dal tempo del nuraghe, anzi. La progressiva italianizzazione figlia della TV ha reso l'uso della lingua dei nostri padri marginale. Già afflitti da un   falso ed ingiustificato (eppure atavico) sentimento di inferiorità rispetto allo straniero, i sardi come noto spesso provano pudore (per non dire vergogna) a parlare la propria lingua al di fuori di un contesto familiare o strettamente circoscritto al paese. Per il resto del mondo essi sono italiani. Ne parlano la lingua, appunto.
§ Culturalmente quei giovani sardi sono italiani. Ne conoscono storia (italiana appunto, non sarda), sanno degli Etruschi ma non dei sardi nuragici, di Scipione l'africano, ma non di Ichnusa, sanno di Lorenzo il magnifico, ma non di Mariano IV, sanno di Mazzini ma non di Pitzolo. Sono italiani nell'aver studiato gli affluenti del Po e non l'idrografia sarda, nell'aver studiato Dante piuttosto che la Carta del Logu, i monti degli Appennini e non quelli del Limbara. Sono i figli di quella forzata italianizzazione che ci fa consci delle bellezze di Ravenna e ignoranti di quelle di Castelsardo, della bellezza di San Pietro piuttosto che di quella di Saccargia.

§ Politicamente quei due ragazzi sono italiani, in quanto votano all'interno di un sistema politico italiano. Non meno sono sardi, perché potrebbero, utilizzando il medesimo strumento che è il voto, decidere di scindere il destino della loro isola dall'italia. Potrebbero, appunto.

Eppure questi due ragazzi, così inseriti nel contesto politico, culturale, linguistico italiani sentono spontaneamente la necessità di evidenziare questa loro peculiarità, con quella bandiera, quelle fascette. Perchè? Non sarebbe bastato scrivere all'interno della parte bianca della bandiera "Selargius" o "Oschiri" per definire il posto da dove provengono?
Certo è che il loro desiderio di esplicitare la loro differenza è spontaneo. Non meno certo è che questi ragazzi sono italiani. Ecco, questa dicotomia tra sardo ed italiano, tra piccola e grande patria è a mio avviso ciò che sta alla base della particolarità di quella foto. In questa doppia Patria, in questo prendersi il buono dell'una (l'atleta italiano che gareggia alle olimpiadi) e quello dell'altra (l'orgoglio di far parte di una piccola patria).  

Ed è una posizione che io reputo un po' troppo comoda.

E' infatti comodo sentirsi italiani quando si guarda la Vezzali, e sardi quando si legge dei privilegi della "Casta" che peraltro noi sardi come gli altri italiani abbiamo contribuito a mettere dove sta.
Forse è giunto il momento di rendersi conto che si può andare alle olimpiadi e magari non vincere neppure una medaglia, che si può essere orgogliosi supporter di una squadra che non arriva alle fasi finali di un europeo di calcio, che si può tifare una squadra che quando va bene esce al secondo turno della europa league. Che essere davvero cittadini una piccola patria può essere non meno bello di quello di essere cittadini in un (grande?) patria.
E forse, chissà, potrebbe essere bello scoprire che ci sono altri sport oltre il calcio, altri valori oltre alla vittoria ad ogni costo, che se non vinci la colpa è sempre dell'arbitro e non tua.
E che magari ci possa essere una qualche soddisfazione a non vedere più le risorse che sarebbero dovute essere usate per le tue strade, i tuoi ospedali, le tue scuole sono davvero spesi per quello e non per alimentare una guerra in Afghanistan, o inutili presidi militari in Libano, Kossovo, o nell'acquisto di modernissimi cacciabombardieri.
Forse, davvero, quei ragazzi potrebbero andare a Londra, a Rio o dovunque ci sarà una olimpiade e tifare un atleta sventolando una sola bandiera, ed essere riconosciuti come cittadini sardi. E non importa se il nostro atleta arriverà penultimo. Alle olimpiadi non vale forse il detto di De Coubertin "l'importante è partecipare"?

sabato 14 luglio 2012

Diciotto

Te l'ho detto altre volte. Io non sono giovane né mi sento tale. Oggi per te è un giorno speciale...e lo è anche per me. Il primo dei miei figli compie 18 anni, ed inevitabilmente anche per me è un momento di bilanci.


E così ti passa tutta la vita davanti.
Ma io, Giulia, lo sai che la memoria l'ho spesa quasi tutta per il lavoro o per cose per te inutili come ricordarmi i risultati delle partite del Cagliari.
Perciò ho poche istantanee bene impresse, in quell'album fotografico che dovrebbe invece contenerne migliaia.
§ La prima è il giorno che sei nata. Eri uguale a me. Dopo una settimana eri completamente diversa. Per fortuna.
§ Nella seconda immagine ti vengo a prendere in aeroporto (eri a Parma). Hai 4 anni. Hai un abitino rosso. Ti sollevo per aria come un pallone, e rido, rido come se i quattro anni li avessi avuti io e tu fossi davvero un pallone.
§ La nella terza immagine sei in strada con le tue amichette del vicinato. Sorridi, hai più o meno 6 anni. Sei un piccolo leader, qualcuna è un po' più grande ma non è un problema. Non hai mai avuto problemi di integrazione.
§ In quest'altra siamo in Ogliastra. Lo scoglio non è altissimo, non credo arrivi a 5 metri, ma tu hai 9 anni ed a Olbia non ci sono scogliere. Mi tuffo, mi giro e faccio "Dai, c'è fondo". Dieci secondi dopo sei in acqua a fianco a me. Quel giorno ho capito due cose di te: che ti fidi di me e che di me hai anche un'altra cosa oltre il cognome. Una certa dose di incoscienza.
§ Hai 14 anni e ti vengo a prendere da tua mamma. E' estate, sei abbronzata, hai una camicia pakistana bianca che risalta sulla tua pelle scura. Hai i capelli sciolti, sei sicura di te e dimostri ben di più della tua età. Un padre resta un padre ma l'uomo la sua considerazione la fa lo stesso. No, davvero non sei più una bambina. Ma la ruota sta girando per il verso giusto. Goditi i tuoi anni.

§ Hai 17 anni e mi mostri i tuoi 4 tatuaggi, alcuni dei quali celatimi per anni, prendendomi come fesso. Me li mostri con orgoglio e naturalezza, come si mostrano i tatuaggi. Io so che loro sono stati il tuo percorso dell'adolescenza, in loro ci sono gli errori che hai fatto (e ne hai fatti tanti, e lo sai) e le cose belle che ti sono capitate, come la nascita dei tuoi 2 fratelli.


Lo so che sono noioso, che "ti sto incubando" anche adesso. Ma è il mio ruolo. Io non sono tuo amico, sono  "quello".
Quello che ti ha sempre chiesto "come è andata a scuola" sapendo dei tuoi disastrosi risultati, quello che da bambina ti ha tenuto fino ai nove anni dietro e col rialzo anche se "le mie amichette vanno davanti", e che tutt'oggi ti "ricorda" di dover mettere la cintura. Quello che ti zittiva ai colloqui dicendo "non interrompere il professore" mentre la stragrande maggioranza degli altri genitori andava ai colloqui per fare l'avvocato del figlio (asino). Ma io sono quello. Sono quello che ti ha dato "una surra"  quando ho reputato in coscienza di doverlo fare, e quello che ha pianto con te quando si deve condividere un dolore. Quello che ha provato a spiegarti la fortuna di vivere qui e non altrove, perché è bene non dimenticare che noi siamo nella parte ricca del mondo, prexiaus d'essi Sardus.


Sinceramente non so se sono riuscito a darti  una educazione o quantomeno un esempio di come si possa rimanere con la schiena dritta, con pochi lussi (e non è vero che sono tirchio) e tanto lavoro. Ma il valore del denaro, quando lavorato onestamente, qualcuno te lo deve pur insegnare in una società dove tutto sembra facile, tutto dovuto. E non importa se non diventerai "dottori" come sognavo io. Come non smetterò mai di dirti, ogni lavoro è rispettabile. La vergogna è rubare.


Da oggi hai l'età per navigare da sola. Il tuo scafo forse non è pronto come io avrei voluto, ma il tempo è arrivato.
Buon vento, Giulia.













giovedì 14 giugno 2012

Perché astenersi onorevole Zoncheddu?

A mio avviso la consigliere regionale Claudia Zuncheddu ha perso una grande occasione per dare un esempio di onestà rispetto alla banda di masnadieri che, come degli autentici ladri, hanno bellamente ripreso con la mano sinistra quello che i Sardi avevano loro tolto con un referendum che questa casta aveva finto di appoggiare. L'unica rappresentante dell'indipendentismo sardo avrebbe dovuto denunciare con quanto fiato ha in corpo la manovra da furbetti portata avanti in maniera rigidamente trasversale dai deputati di ogni partito di origine italiana ( meno IDV).
Lei scrive sul suo sito che c'è tanto populismo e l'articolo che si andava a votare non era chiaro.
Le credo. Non meno, proprio perché si dichiara favorevole al taglio degli stipendi degli
"onorevoli" a che pro non esprimersi palesemente contro una norma che invece per certo ripristinava la situazione come se nulla fosse?

Se chi professa l'indipendentismo ovvero la massima espressione della considerazione del Sardo poi non ne rispetta la volontà come pretendere che i Sardi prendano davvero in considerazione l'indipendentismo come autenticamente diversa dai partiti nazionali italiani? L'occasione era ghiotta, perché esitare?
































sabato 12 maggio 2012

Cagliari ...

..che la vita ci ha portati più o meno lontano è quella volta che ti sei sbronzato al Poetto, la vela con la pivella a Monte Urpinu, il sorriso sdentato del venditore di ricci.
Poi dipende dal quartiere, e Cagliari prende colori diversi. Per noi di San Benedetto sono le sigarette comprate al bar Europa a mezzanotte, le paste di Marabotto o quelle di Pirani. Poi ci sono i rumori, gli odori, la chiassosa generosa confusione del nostro bellissimo mercato, le urla dei pescivendoli e gli splendidi banchi di frutta. Per me Cagliari è l'odore degli zerri arrosto, le dita sporche dell'inchiostro dell'Unione Sarda letta con l'avidità del bambino curioso di tutto, le piccole botteghe delle vie intorno a Santa Lucia.
In generale per noi che non viviamo fuori Cagliari è un po' un rimpianto e un po' una scelta, il posto che ti emoziona quando ci pensi ma poi quando ci sei guardi con l'occhio disincantato del vecchio amante.
Cagliari è quegli orari un po' spagnoli, il
sole anche a febbraio, i ristorantini che si spende poco, l'accento che non perdi.
Cagliari sono le sue tantissime chiese, la salita di via Manno e e quei Panini Africani che oggi non fanno più.
È il bastione per ricordarti cosa hai lasciato, l'amico che a quarant'anni vive con i suoi per ricordarti perché l'hai lasciata.




































sabato 21 aprile 2012

Birra Ichnusa, la nostra Guinnes mancata

C'è qualcosa di particolare nel rapporto tra i Sardi e la loro birra.
L'esterofilia si dilegua, la sudditanza psicologica dal continentale evapora.
Toglietemi tutto, ma non la mia Ichnusa, sarebbe lo spot più veritiero per il Sardo preso in giro mille volte. Derubato del suo mare da chi blocca la pesca ai nostri pescatori ma chiude tutti e due gli occhi su quelli siciliani, del suo vento da un iniqua ripartizione degli utili delle sempre più numerose ed efficienti centrali eoliche, dalla sua terra spesso data quasi gratis a chi la dilania ed avvelena con le bombe "intelligenti", il Sardo, in un sussulto di lucidità, riconosce nella bottiglia con i 4 mori la sua bandiera.

Certo, l'identificazione tra una bottiglia ed una bandiera fa un po' pensare.
Siamo davvero così alcolizzati?
Oppure "in birra veritas" come si potrebbe parafrasare?
Non so.

Per certo in questi giorni la multinazionale Heineken ha sapientemente orchestrato un "celebration day" che fa pensare: da un lato lo spot, oggettivamente bello. Forse per un pubblico più "del continente", ma efficace, e che strizza comunque l'occhio al nostro atavico orgoglio isolano. 
Dall'altro lato una riflessione: se l'Heineken avesse davvero a cuore l'Isola che comunque è il maggior mercato e dà origine al brand Ichnusa, perchè non porta qui in Sardegna (ad Assemini, per esempio dove c'è lo stabilimento) la sede legale? Pagherebbe le sue tasse italiane qui, dando gettito alle nostre esangui casse.

La birra Ichnusa è per noi Sardi la Guinnes per gli Irlandesi. Per ora meno conosciuta e distribuita. Forse, un giorno, il turista (ma mi sa più spesso l'emigrato) Sardo potrà entrare in una brasserie e chiedere con nonchalance una Ichnusa. 

Per ora ci basti trovarla al supermercato sottocasa, assaporare il suo gusto amarognolo. E pensare che in fondo lei è un po' come la Sardegna. Buona. 

sabato 24 marzo 2012

Articolo 18 tra tabù ed efficienza

Inserisco molto volentieri nel mio blog questo articolo di  Fabiano Schivardi, docente di Economia Politica presso l’Università di Cagliari, già pubblicato presso Lavoce.info
Buona Lettura
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Ancora una volta, l’articolo 18 si presenta come un ostacolo insuperabile a qualunque discussione di riforma del mercato del lavoro. Il dibattito si svolge per lo più sulla base di giudizi di valore, da una parte perché è molto difficile misurare i costi effettivi della norma, dall’altra perché su questo argomento non sembra esserci spazio per posizioni sfumate: o è un elemento di civiltà irrinunciabile (ad esempio per i sindacati) o la fonte di tutti i mali della nostra economia (ad esempio per l’ex ministro Sacconi).

I limiti dell’articolo 18

Secondo l’ordinamento italiano, il licenziamento non deve essere discriminatorio e deve essere motivato da ragioni oggettive legate alle necessità produttive dell’impresa o soggettive dovute al comportamento del lavoratore. Nel caso non sussistano giustificazioni per il licenziamento, sono previsti due tipi di tutela a seconda della dimensione dell’impresa. La tutela reale (definita nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) copre, in generale, i lavoratori delle imprese private con più di 15 addetti e prevede un risarcimento monetario e la possibilità che il lavoratore scelga tra reintegro sul posto di lavoro e un’ulteriore indennità. La tutela obbligatoria copre i lavoratori delle altre imprese private e prevede esclusivamente un risarcimento monetario che varia da 2,5 a 6 mensilità. Per le imprese private con più di 15 addetti, la normativa disciplina anche i licenziamenti collettivi, ovvero quelli che riguardano almeno 5 dipendenti e sono motivati da necessità legate all’attività produttiva. È prevista una specifica procedura che coinvolge le parti sociali e gli organi amministrativi locali.  È questa (più che l’articolo 18) la normativa che rileva nel caso di crisi aziendali, particolarmente frequenti in questa fase.

L’articolo 18 offre quindi una protezione contro il licenziamento senza giustificato motivo. Da un punto di vista strettamente economico, è un modo inefficiente per proteggere i lavoratori per vari motivi. Il suo campo limitato di applicazione ha anche forti caratteri di iniquità.
In primo luogo, l’indennizzo (o il reintegro) si applica solo nel caso che il giudice ritenga illegittimo il licenziamento. In caso contrario, l’impresa non ha nessun obbligo di corrispondere un’indennità al lavoratore che rimane disoccupato. Nella maggioranza dei paesi industrializzati, l’impresa corrisponde comunque un indennizzoal lavoratore licenziato, anche in caso di giusta causa. In Italia, il lavoratore licenziato per giusta causa non solo non ha accesso a un adeguato sistema automatico di assicurazione contro la disoccupazione, ma non riceve neanche un risarcimento monetario dall’impresa.

Il secondo problema è che l’articolo 18 chiama pesantemente in causa il sistema giudiziario. Anche se i tribunali del lavoro operano con più rapidità di quelli civili, il ricorso alla magistratura è sempre molto oneroso in termini di costi monetari, lunghezza delle procedure, incertezza dei risultati. A riprova di ciò, nel 1998 un’indagine sulle imprese manifatturiere con oltre 50 addetti rivolgeva agli imprenditori la domanda: “Nella vostra percezione, qual è il peso dei seguenti fattori nel determinare i costi potenziali connessi al licenziamento individuale per necessità economica dell’impresa (“giustificato motivo”): a) inadeguatezza dei meccanismi di conciliazione; b) deterioramento nelle relazioni aziendali; c) lunghezza delle procedure legali connesse all’eventuale ricorso del lavoratore; d) incertezza dell’esito delle procedure legali connesse all’eventuale ricorso del lavoratore?”. Solo il 35 per cento delle imprese attribuisce un “abbastanza o molto” alla domanda a) e il 21 per cento alla b). Le percentuali salgono quando entra in ballo il tribunale: 56 per cento alla c) e ben il 61 per cento alla d). Le imprese si lamentano della lunghezza delle procedure legali e, ancora di più, dell’incertezza dell’esito della causa.

La forma di tutela prevista dall’articolo 18 implica tempi lunghi ed esiti incerti, introducendo un costo implicito notevole, che sottrae risorse a eventuali compensazioni dirette fra le parti.
Riducendo la possibilità di riallocare il lavoro, l’articolo 18 abbassa la produttività del sistema economico. Minore produttività implica inevitabilmente salari più bassi, anche se non esistono stime quantitative dell’effetto.
Infine, l’aspetto più iniquo del nostro sistema di regolamentazione del mercato del lavoro è il dualismo, con forti differenze fra protetti e non. I costi di efficienza dell’articolo 18 sono sopportati in gran parte da chi non ne è tutelato (i lavoratori senza contratto a tempo indeterminato e quelli in aziende al di sotto dei 15 dipendenti), sui quali si scarica la domanda di flessibilità delle imprese.
Garantire il diritto a non essere licenziati senza giusta causa non è quindi gratis, tantomeno per i lavoratori.

D’altra parte, non si vive di sola efficienza: si può essere disposti a “pagare” per un diritto che si ritiene importante. La questione fondamentale è quindi capire i termini del trade-off, cioè quanta importanza si attribuisce alla tutela del diritto rispetto al costo che il sistema economici sopporta per garantirlo. Siamo qui nel campo dei valori e non ci sono strumenti di misurazione oggettiva. Ci possiamo solo affidare alle azioni di tutela messe in campo dai diretti interessati. E non ci sono dubbi: l’articolo 18 ha un forte valore simbolico. Per i sindacati ha sempre rappresentato uno dei pochi elementi non negoziabili e si sono sempre opposti senza esitazione persino a discutere dell’argomento. Il comportamento sindacale sembra riflettere un atteggiamento diffuso nei lavoratori, come testimonia ad esempio la manifestazione oceanica organizzata dalla Cgil nel 2002 per protestare contro ogni ipotesi di modifica. I lavoratori, quindi, sembrano disposti a sopportare i costi impliciti di questa forma di tutela.

Quella fatidica soglia

Valutare i costi di efficienza per l’impresa è molto difficile. In un lavoro con Roberto Torrini (2008)  abbiamo confrontato il comportamento delle imprese appena sopra e appena sotto la soglia dei 15 dipendenti. L’idea è che imprese con 15 o 16 dipendenti sono fra loro molto simili, a parte il fatto che quelle sopra la soglia sono soggette all’articolo 18. Eventuali diversità nei comportamenti possono essere usate per “misurare” l’importanza dell’articolo 18. Al solito, i risulti vanno presi cum grano salis. L’analisi si basa infatti su dati fermi  al 1998. Nel frattempo, ci sono stati cambiamenti importanti nel sistema economico (ma non nella normativa). Inoltre, è possibile l’effetto soglia catturi solo una parte degli effetti complessivi dell’articolo 18. Ciò detto, evidenze alternative non ci sono.

Come visto sopra, la legge prevede una netta discontinuità nei costi di un licenziamento giudicato illegittimo per le imprese con più di 15 dipendenti.  Questo fatto viene spesso indicato come una delle cause del nanismo delle imprese italiane. Se così fosse, ci dovremmo aspettare un addensamento di imprese appena sotto la soglia dei 15 dipendenti e una forte caduta sopra di essa. La figura sotto riporta il numero di imprese per dipendenti per le classi dimensionali da 5 a 25 (1). Il numero decresce regolarmente, con al più una piccola caduta a 16 dipendenti. Non c’è ammassamento sotto la soglia.

Abbiamo anche considerato la propensione a crescere delle imprese. Se passare la soglia dei 15 dipendenti è molto costoso in quanto si diventa soggetti all’articolo 18, ci dovremmo aspettare che le imprese siano molto restie a farlo. La figura sotto riporta la quota di imprese che accrescono l’occupazione da un anno all’altro. La quota cresce regolarmente con la dimensione, in quanto più grande è l’impresa e maggiore è la probabilità di accrescere l’occupazione (e, simmetricamente, di decrescerla). Si vede molto chiaramente un calo in prossimità della soglia: le imprese sono più restie a crescere quando ciò comporta il passaggio di soglia. Ma la caduta è modesta: la probabilità di crescere scende dal 35% che si verificherebbe senza l’effetto soglia al 33 per cento  (abbiamo riscontrato riduzioni di entità simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di assunzione di categorie protette, una tutela che certo non riceve l’attenzione dell’articolo 18)  (2). Utilizzando tecniche statistiche, abbiamo anche calcolato che la dimensione media delle imprese italiane crescerebbe dello0,5 per cento rimuovendo l’effetto soglia. Siamo ben lontani dal raddoppio necessario per arrivare ai livelli degli altri paesi industrializzati.

In conclusione, i costi aggiuntivi derivanti dal superamento della soglia dei 15 dipendenti non sono ritenuti così onerosi dalle imprese da far rinunciare massicciamente a opportunità di crescita. Il trade off è quindi costi sociali alti, dato l’alto valore simbolico attribuito all’articolo 18 da parte dei lavoratori e benefici di efficienza incerti, probabilmente modesti. Bisogna domandarsi se il gioco vale la candela, o se non si possa agire su altri aspetti meno controversi per rendere più efficiente il nostro mercato del lavoro. Gli ambiti di intervento non mancano. C’è spazio per migliorare la  normativa sui licenziamenti collettivi, che, secondo gli indicatori Ocse, potrebbe essere semplificata per assicurare una gestione più efficiente degli stati di crisi. Si può anche agire sulla flessibilità “interna”, cioè di gestione della forza lavoro, su cui si sono fatti progressi sotto la spinta della vicenda Fiat (nella quale, tra l’altro, la questione licenziamenti non è mai stata sollevata) ma su cui si può ancora migliorare. E serve mettere ordine nel sistema di ammortizzatori sociali. A quel punto, chissà, potrebbe essere possibile discutere di articolo 18 senza dover salire sulle barricate.

(1) La figura è tratta da Schivardi e Torrini “Identifying the effects of firing restrictions through size-contingent differences in regulation”, Labour Economics 15 (2008) 482–511.
( 2) Conclusioni simili sono raggiunte da Garibaldi, P., Pacelli, L., Borgarello, A., 2004, “Employment protection legislation and the size of firms”, Giornale degli economisti e annali di economia 63, 33–68 . Nel nostro lavoro, inoltre, abbiamo riscontrato riduzioni di entità simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di assunzione di categorie protette.

sabato 25 febbraio 2012

Il buon esempio

Tu sei la Sardegna del dopoguerra, che viene dalla fatica dalle miniere. Uno stipendio da ferroviere ed una famiglia da campare. Pochi svaghi ed una vita semplice. Quella che ti sei scelto.
Tu se la Sardegna che fatto studiare i figli, che parla italiano correttamente e che vive un tenore di vita umile ma incredibilmente al di sopra della generazione dei genitori e rendendosene saggiamente conto vive senza mai lamentarsi.
E senza mai dimenticare come "si fanno le cose".

Perciò sebbene tanto diverso da me avevi tanto da insegnarmi. E l'hai fatto, a modo tuo, con discrezione e talvolta senza capirmi esattamente quando ti rispondevo. Ma ti piaceva la mia curiosità e a me la tua concretezza. Perciò siamo sempre andati d'accordo.

Quando poi sei diventato il nonno di mia figlia, è uscita fuori quella parte di te che forse manco tu sapevi di avere. E così mi hai insegnato, ancora, che si può essere uomini come quelli di una volta, poche parole e tanti fatti, ed un nonno spettacolare, il miglior giocattolo che un bambino possa sperare di avere.

L'altri giorno ero sul tetto di casa a lavare i pannelli solari. Vedevo girare la palla aspira fumo sul comignolo. Come in tante circostanze questo mese mi sono rattristato. Quel giorno avevi avuto una idea brillante per come risolvere un problema. E mi hai insegnato come si fa lo spazzacamino.

Avevi ancora tanto da dare, sono certo che anche Marco ti avrebbe adorato. Il destino ti ha portato via, girando la ruota nel verso giusto ma solo troppo, troppo in fretta.
E sebbene sapevi bene cosa ti stava accadendo hai affrontato tutto con la misura e la serietà che ti contraddistingueva.

Dandomi così, ancora una volta, il buon esempio.

lunedì 13 febbraio 2012

La prossima volta

Ciao Ari.
La prossima volta che farò un pupazzo di neve ad Olbia non sono sicuro che sarai con me a farlo. La frequenza delle nevicate (diciamo sopra i dieci cm.) non è tale da pensare che tra dieci anni o forse più tu avrai voglia di
stare con papà per giocare a fare un pupazzo di neve. La neve si stava già sciogliendo, ma tu avevi voglia di fate quel pupazzo, dicevi "dai facciamolo!" con la coscienza di chi sa che non ricapiterà così presto.

Quello che non sai, bambina mia,
è che se per te non sarà forse così presto, per certo ora la prossima volta non sarà come questa volta.
Tra dieci anni o forse più sarai una donna o quasi. Ed io non sarò certo in cima si tuoi pensieri se vorrai giocare sulla neve in un parco.
Ma sarà bello giocare con la neve e Tavolara alle spalle, ed anche per me sarà un piacere non vederti giocare con me. Perché sarà ha vita che scorre, ed io (forse) sarò li ad aspettarti per cena.



























domenica 8 gennaio 2012

Chi tifa il Cagliari

Sa che in ogni partita puoi aspettarti di tutto. Potrai perdere con onore col milan o perdere rovinosamente col Siena , pareggiare col Napoli 3 a 3 senza voce, vincere coi gobbi che non vincevi dal 68, incazzarti che ti rovini il fine settimana. Urlare al sardo gobbo " non sei sardo" che credo non ci sia insulto peggiore per uno di noi. Noi sappiamo che non ci sono davvero partite facili per noi. Mai. Noi resuscitiamo i morti, gli attaccanti che non segnano mai hanno sempre una chance: basta giocare con noi. Noi siamo quelli che se batti la Roma a Roma non sei stato bravo tu, sono gli altri che hanno giocato male.

Chi tifa il Cagliari sa che il calcio è una metafora della vita. Che le cose, come nella vita, anche nel calcio le cose possono cambiare molto, molto in fretta o non cambiare mai.
Che come tutti viviamo di promesse e di speranze, ma di sogni, noi, non viviamo davvero.

Perché noi siamo così, disincantati, un po' pessimisti, un po' stronzi soprattutto tra di noi. Perché siamo una repubblica, non un regno. Perché Riva era Riva, ma era dentro un senato dove gli altri senatori erano Martiradonna o Nenè o Albertosi. Perché Zola era Zola, ma giocava con Suazo ed Esposito.

Noi siamo così, felici ma cauti, vestiamo Carlo Felice ma in fondo preferiremmo due rinforzi per l'anno prossimo perché lo sappiamo che noi una squadra forte due anni di seguito l'abbiamo avuta così poche volte..

Noi siamo snob, non ci piacciono i napoletani o i romani, sguaiati, assurdi mediorentiali. Noi non siamo milanisti, schiavi di un dio nano e puttaniere, o interisti, gli eterni perdenti invidiosi, o peggio i gobbi, che poi in Sardegna si identificano con i sassaresi impiccababbo invidiosi. A noi non ci piace davvero nessuno. Ci sentiamo superiori a tutti perché intimamente siamo diversi, e troviamo più difficile il nostro essere tifosi di una squadra che perde più che vincere, di un'isoletta lontana di cui ci si ricorda per le spiagge o il mirto.

Noi tifiamo il Cagliari perché Sardi orgogliosi, perché testardi incuranti delle mode o dei servizi di SKY sui "Campionissimi" che nella migliore delle ipotesi è uno che dura tre stagioni e non si degna di spendere due righe su Andrea Cossu.

Chi tifa Cagliari lo fa a suo rischio e pericolo, sa che litigare sarà il suo hobby al bar, che l'incompetenza calcistica che riempie la bocca di chi gli sta di fronte sarà il suo miglior alleato.

Chi tifa il Cagliari non crede ai miracoli, ne fa uno ogni domenica.