domenica 9 dicembre 2007

La guerra di successione

La crisi c'è, di nervi. Ho controllato la data di na­scita di Silvio Berlusconi: 29 settembre 1936. Ha 71 anni. L'aspettativa di vita di un maschio italiano di oggi supera i 78 anni (gli 84 per una donna, ammesso che riesca a scampare ai maschi, italiani e no). Benché Berlusconi pos­sieda più o meno 30 mila mi­liardi di vecchie lire, e vivere sotto una cifra tale non debba essere facile, bisogna imma­ginare, a parte gli auguri mi­gliori, che disponga almeno di una decina d'anni di vita e di attività.

Se invece vivesse, dicia­mo, come Mao Ze-dong, 83 anni pieni, gliene resterebbero al­tri 12. Dico Mao non a caso, co­me vedremo. Questi strampa­lati calcoli - che il signor B. perdonerà: lui è superstizioso, portano bene — mettono a fuoco la questione. Il centrode­stra ha, da alcuni anni, e più decisamente dopo la sconfitta nelle politiche scorse, un'uni­ca ragion d'essere: il dopo-Berlusconi, e più esattamente la guerra di successione a Ber­lusconi. Berlusconi, senza il quale quel centrodestra non sarebbe esistito (e purtroppo nemmeno una buona parte del centrosinistra) è oggi, con i suoi tredici anni di carriera ti­rata, un navigato uomo politi­co. Ma prova ancora, e magari riesce, a mostrarsi come un outsider, un prestato alla politica, uno di passaggio. Ha il suo tornaconto: una tasca per la politica, una per l'antipolitica. Perfino tutti quei soldi, po­veretto, ai quali nessuno rie­sce neanche per un momento a non pensare guardandolo, funzionano come un segno di estraneità: che cosa volete che gliene importi a lui della pen­sione da parlamentare, che per tanti bravi padri di fami­glia è un cosi fatale traguardo. Nel feudalesimo italiano, il centrosinistra soccombe ai valvassini, il centrodestra ai vescovi-conti. Berlusconi è riuscito a convincere della propria provvisorietà in poli­tica, oltre che se stesso, anche i suoi alleati, che hanno pa­zientemente fatto la loro par­te, e poi, un po' più impazien­ti, hanno cominciato a morde­re il freno e a immaginare il proprio posto in un futuro senza Berlusconi, che davano per scontato — gli intrusi della politica (è la traduzione esatta di outsider) infatti, come sono venuti, se ne andranno — e cui anzi hanno pensato di dare una spintarella. Così, a più riprese, sembrando Berlusconi sul punto del commiato e del congedo, i comandanti in se­conda (il primo è uno, i secon­di sono folla) hanno fatto la lo­ro corsa, mista di sortite e fre­nate e zigzag. Costoro, piccolo plotone, hanno affidato alla politica, chi più spericolata­mente, come Casini, chi più prudentemente, come Fini, le sorti della propria personale aspirazione alla successione. Ma Berlusconi non si toglieva di mezzo, e anche quando l'u­niversa politologia lo decreta­va spacciato - penultimo esempio, all'indomani delle elezioni del 2006, ultimo esempio, all'indomani della spallata mancata sulla Finan­ziaria- tornava a drizzarsi loro davanti, con quel sorriso stampato da omino del Brylcreem. L'ultima resurrezione, sulla gloria del predellino, mi­naccia il colpo di grazia agli al­leati in seconda. Già nei giorni precedenti, imploso il centro­sinistra, il centrodestra era esploso, e i suoi notabili dicevano ad alta voce quello che si dovrebbe solo sussurrare nel­la penombra di un bar minato di microspie. C'era, in quella brusca caduta dei freni inibi-tori, qualcosa di penoso, una indigestione di bocconi ama­ri, e qualcosa di maramaldo, la liquidazione senza benservito di un padronaggio troppo protratto.

È qui, direi, che i proci di Berlusconi hanno accusato il colpo, hanno sentito perduta la battaglia della pazienza e della manovra politica, e si so­no abbandonati alla biologia, cioè all'anagrafe. Con una rassegnazione disarmante, Fini l'ha detto: io ho vent'anni di meno. Vuol dire: si arrampichi pure sul predellino, faccia pu­re il suo appello plebiscitario, mi porti pure via il tappeto di sondaggi di sotto i piedi, ma fra vent'anni io avrò gli anni che lui ha oggi, e lui... Se non la politica, o la storia, sarà la natura a vendicarmi. Non è l'unico indizio della crucialità della questione ereditaria. Pren­dete la svelta adesione di Daniele Capezzone al Partito del Popolo pur mo' nato. Capezzone viene da un traumatico diseredamento, tra i Radicali italiani di Marco Pannella (78 anni, esattamente l'aspettati­va media di vita dei maschi italiani: lunga vita a Marco). Una fretta nel giovane erede (più o meno) designato, una ribel­lione al corso naturale delle cose nel vecchio capo, e la suc­cessione saltò. Se gli fuggisse dal petto lo stesso sospiro di Fini, Capezzone potrebbe vantare, rispetto a Berlusconi, una differenza non di 20, ma di 36 anni: neanche la metà. Au­guri a tutti. L'indizio più certo l'ha dato Giuliano Ferrara, evocando a proposito della mossa di Berlusconi - che ci abbia messo o no lo zampino - l'ordine di aprire il fuoco sul quartier generale impartito da Mao nel 1966, che scatenò la Rivoluzione Culturale. Ferra­ra non esclude nessuna frec­cia dal proprio arco, e a suo modo ha fatto molto per il Par­tito Democratico, e fa moltis­simo per il Partito del Popolo, ma poi, al momento di dichia­rarli marito e moglie, vedrà sfumare la cosa come al solito. (Si osservi di passaggio che tutte queste evocazioni di Lenin e di Mao e delle guardie rosse e, minimo minimo, di Eltsin sulla tolda del carro ar­mato, a un anticomunista co­me Berlusconi devono mette­re una vera allegria: vi ricorda­te il Martin Amis di "Koba il terribile", che non riusciva a spiegarsi, quanto a Stalin, il buonumore di transfughi e convertiti, "una risata e venti milioni di morti"). Bene: il Mao che lanciò la Rivoluzione Culturale aveva 73 anni, due più di Berlusconi oggi, era po­co meno che ostaggio di un apparato che si contendeva alla sua ombra l'eredità dogmati­ca e la successione al potere, e rovesciò le regole del gioco. Durò al potere, più o meno, al­tri dieci anni, sacrificò i milio­ni, e alla fine non potè impedi­re che i superstiti dentro l'ap­parato riprendessero il sopravvento: tuttavia si cavò le sue soddisfazioni. Il paragone "cinese" fissa la questione nei suoi termini essenziali: Berlu­sconi è tutt'altro che pronto a uscire di scena, battuto, o rassegnato a passare la mano. Ha davanti a sé ancora un buon tratto di strada da fare, divertendosi al gioco della politica e dell'antipolitica, re in proprio o Queen-maker (regina è la folla). Ma soprattutto ha una gran voglia di mandare gambe all'aria il tavolo della succes­sione naturale e ordinata. Mandare all'aria tutto, qual­che ora dopo che tutti gli alle­stivano il funerale politico, e senza nemmeno i conforti della religione, dev'essere una vera pacchia. La Rivoluzione culturale rispondeva all’avari­zia e al gusto del ripudio che anche sul letto di morte pren­de i veri sacerdoti del Potere. Nel nostro piccolo Berlusconi fa la stessa cosa con "la classe dirigente" del centrodestra, promuove al ruolo di Jiang-Qing la signora Brambilla — si licet - e vuoi cavarsi la soddi­sfazione di un estremo e au­tentico peronismo, lui solo sul balcone, e il popolo italiano, cioè il pubblico del Bagaglino, di sotto nella piazza. Non lo chiama "quartier generale", Berlusconi, la chiama "classe dirigente", ma il concetto è quello. Da una parte la classe dirigente e il "progetto": dal­l'altra lui e il popolo.

Vien quasi da dire che c'è una provvidenza. La meschi­nità di centrosinistra oscurava il vuoto pneumatico del centrodestra, tenuto assieme da due attese, quella melodram­matica della caduta di Prodi, e quella intrigante della giubilazione di Berlusconi. Prodi può sempre cadere, restano fior di professionisti dello sgambet­to: ma anche se succedesse, ora, la giubilazione politica di Berlusconi nel centrodestra è aggiornata a data da destinar­si. Devono confidare nell'anagrafe. La vita politica del cen­trodestra non era che una par­tita differita per la successione a Berlusconi—gli affari di un si­gnor Giulio Cesare da pugna­lare e commemorare a gara. Che non sia l'intera vita politi­ca italiana a trasformarsi in questo.

da La Repubblica del 26 novembre 2007, pag. 1


di Adriano Sofri