mercoledì 22 dicembre 2010

L'ultimo post dell'anno.

Oggi 22/12/2010, voglio inserire come ultimo contenuto del blog dell'anno qualcosa di allegro: per me non è stato un anno facile, e gli amici di Spinoza spesso mi hanno dato il buon umore che mi serviva per tirare avanti: pertanto è un piacere mettere su la loro "compilation" presente in questo momento.

Roma a ferro e fuoco. Berlusconi ottiene la fiducia, ma per errore lancia lo stesso il piano B.

Emilio Fede: “Roma invasa da criminali ben pagati”. Esagerato, erano solo 314.

(Il cesarismo, il regime fascista, i moti rivoluzionari, il ’68. Con la riforma Gelmini la storia si studia in piazza!)

Decine di macchine incendiate nel centro della città. Erano tutte della Polidori.

“Danni senza precedenti all’immagine della capitale” ha detto Alemanno riassumendo il suo mandato.

Berlusconi: “Il paese non ha bisogno di personalismi. Lasciate fare a me”.

Da Vespa il plastico di Montecitorio. Si potrà analizzare la traiettoria delle mazzette.

Dopo la fiducia, il premier pranza con Napolitano. È bello, nei giorni di festa, sedersi a tavola con la servitù.

“Sono fiero dei miei deputati” ha dichiarato Casini, tastandoseli.

Delusione delle deputate in dolce attesa presenti in aula. Berlusconi per ora non intende reincarnarsi.

Letame a palazzo Grazioli. La maggioranza si ricompatta.

Calderoli: “Il governo mangerà il panettone, ma non la colomba”. E che cazzo l’avete comprata a fare?

“L’unica igiene è il voto” ha detto Bossi, chiedendo con urgenza una scheda.

“Elezioni? Meglio risparmiare quei soldi e darli agli italiani” ha dichiarato Scilipoti, nella sua veste di rappresentante degli italiani.

(Poco prima Scilipoti aveva confessato la sua indecisione a Veltroni. Voleva far colpo su di lui)

Scilipoti: “Annozero ha importunato mia madre”. Però anche lei, andare in giro in quel modo.

Gasparri alza il dito medio verso Fini. Se lo era segnato col pennarello.

Bersani: “Non cambia nulla”. È questo il problema, fagiano!

sabato 4 dicembre 2010

Qui ad Atene noi facciamo così

2500 anni fa, non molto lontano da qui


Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.


Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.


La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.


Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.


Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.


Pericle, Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.

lunedì 29 novembre 2010

Spinoza

Da circa un mese non riesco a fare a meno di Spinoza, http://www.spinoza.it/ 
uno dei pochi aspetti di italianità che non mi sento di ritrattare.

Alcune chicche

- L’industriale Giuliani malmena Emilio Fede. A questo punto superflue le primarie del Pd.
- Pierluigi Bersani pubblica online i suoi voti. Mai più presi così tanti.
- Alcuni dei contestatori hanno tentato di entrare a palazzo Grazioli. Non sapevano che apre solo la sera.
- “Qui ci scappa il morto” ha commentato Schifani con cauto ottimismo.
- Sgarbi condurrà una trasmissione su Rai1. Agli abbonati Rai sarà distribuita apposita paletta.
- Vittorio Sgarbi condurrà un programma in prima serata su Rai uno. Il TG1

In ultimo, una mia
Frattini dice che Berlusconi risponderà coi fatti a chi insinua la propria omo
fobia. Per dimostrarlo lo prenderà in culo da Vendola.

martedì 9 novembre 2010

Si, ora se n'è andato

Stanotte ho sognato Claudio. Non mi era mai successo da quando se ne è andato, oramai quasi 6 mesi fa. Il sogno era un po' confuso, ma c'eravate tutti. Era un po' come tornare indietro di 20 anni. Max era magro, Tonio vestito di chiaro, Giovanni aveva un giubbotto in jeans, mi sa c'era pure Carla. Federico ed io eravamo vestiti in maniera simile, se non ricordo male in velluto. Eravamo a Cagliari, in un vicolo senza uscita con un bar buio, in cuoi io offrivo da bere a Max, pagando con una banconota da 50, nera (chissà poi perchè). Maugeri era fuori dal bar, curiosamente, direi.
E poi c'era Claudio, nei suoi giorni migliori. i capelli nerissimi, era un po' come il giorno che mi sono laureato. Cominciamo a parlare. Ma io ho le palle girate:" Ma cosa vuoi? Quando avresti avuto bisogno di me, di noi, perchè non ci hai chiamato? E' questo per te essere amici?".

In quell'esatto momento, all'interno del sogno, percepivo che "effettivamente" è morto.

Ora, noi ci siamo frequentati per non tantissimo tempo oramai tanti anni fa. Ma, così spero per voi, per quegli anni per me sono stati "speciali", di sicuro vissuti intensamente, al 110 per cento.

Quanto è accaduto a Claudio è certo ingiusto, ma nella maggio parte dei casi siamo noi gli artefici del nostro destino, e Claudio in fin dei conti ha vissuto la sua vita come ha voluto, non sta a me giudicarlo. Ma gli ero affezionato, e mi aggrappavo alla sua "icona" quasi per esorcizzare la scomparsa di quella parte di me che inevitabilmente con gli anni, le responsabilità, il corso della vita ha limitato in qualche atteggiamento poco convenzionale sul lavoro, una certa maniera di prediligere certe forme d'ozio rispetto ad altre, dei modi di dire.
La sua scomparsa non ha chiuso in un cassetto quei ricordi, ma li ha fatti diventare, appunto, ricordi. Non più realtà riproducibile.  Insomma solo ora mi sono accorto che quel "passato" è passato.
E il passato se lo tiene.

venerdì 29 ottobre 2010

Il mito dei sardi buoni e gentili

Posto il mio commento su un articolo di Flavio Soriga apparso su la Nuova Sardegna e presente anche presso
http://www.irsonline.net/2010/10/il-mito-dei-sardi-buoni-e-gentili/

Domenica (17 ottobre 2010) poco oltre le 12.30 guardavo, come tanti tifosi che non possono recarsi allo stadio, la partita su SKY. Quando l’arbitro ha interrotto la partita ho detto: debbo essermi sintonizzato nella televisione di un altro paese, dove le regole (l’interruzione delle partite in caso di cori di contenuto razzista) si applicano. Ho ricontrollato…si, si trattava di una partita di serie A, in Italia.
“Càstia” ho pensato “vuoi vedere che le regole valgono solo per noi Cagliaritani?”
Dico questo perchè evidentemente Flavio Soriga non vede molte partite di calcio, e per certo non vede quelle del Cagliari.
Se vedesse spesso partite di calcio saprebbe per esempio che nell’Italia culla di civiltà millenarie il “buh-buh-buh” lo fanno tutte le tifoserie, e che pertanto quasi tutte le partite sarebbero da interrompere.
Se avesse visto anche qualche altra partita del Cagliari saprebbe che il “buh-buh-buh” lo si riserva anche all’italiano Gattuso come allo svedese(?) Ibraimovich.
Se poi avesse riflettuto sul fatto che a Cagliari abbiamo avuto, da almeno 40 anni, giocatori di colore che hanno tranquillamente ed orgogliosamente vestito la nostra casacca, forse non si sarebbe lasciato andare ad un commento che io reputo un po’ qualunquista.
E se poi si fosse soffermato a notare che quell’odioso “buh-buh-buh” per esempio non veniva invece rivolto a Maicon (anch’esso alto, nero e ricco) forse gli sarebbe potuto sorgere un dubbio: ma non è che i tifosi cagliaritani volevano, senza dubbio in maniera incivile e poco ortodossa, far innervosire il giocatore più in forma della squadra avversaria?
Che c’entra il fatto che noi Sardi siamo (oramai sempre meno) bassi e scuri ed allora, quasi come “conditio sine qua non” non possiamo permetterci di urlare “terrone coleroso”, “continentale di m.” o “torna nella jungla”?
L’insulto è insulto. E’ fatto per provocare, offendere, innervosire.
Eto’o ha tutto il diritto di sentirsi offeso. Ma dovrebbe sentirsi offeso nella stessa maniera nella quale è con ogni probabilità insultato quando il Camerun gioca contro la Costa D’Avorio o il Senegal. Perchè immagino che i giocatori Sardi quando i tifosi avversari gli urlano “pastore” non facciano interromepere le partite.
Perchè lo stadio di calcio, che lo si voglia o no, non è solo sportività o “fair play”. Non è il rugby.
Con ciò, sia chiaro, non intendo giustificare un comportamento estremamente scorretto, che peraltro a mio avviso ha dei precedenti assai peggiori:
Soriga forse non se lo ricorda, ma il Cagliari si è passato un anno giocando a Tempio Pausania per colpa di un digraziato che colpì il portiere del Messina durante una partita. Quel tale fece forse qualche giorno di carcere.
E quella volta non si parlò di Sardi dal cuore d’oro.

lunedì 18 ottobre 2010

Separatezza

Riporto volentieri questo articolo di Marcello Madau, da
www.manifestosardo.org

Decidere liberamente del proprio destino senza dipendere da altri. Una bella scommessa, poiché non è scontato che in un mondo così interdipendente nelle sue parti l’indipendenza sia sempre ed ovunque uno strumento utile alla liberazione e alla democrazia.
Se ne torna a discutere in Consiglio Regionale. Prima di vedere da vicino cosa emerge sul tema dell’identità e della cultura, colpisce come una discussione così importante venga affrontata da soggetti inadeguati. Una classe politica che non è stata in grado di gestire l’autonomia ora alza il tiro e dice che la sovranità è la risposta all’attuale crisi dello stato-nazione italiano.
Siamo certi che l’attuale crisi, ben oltre quella dello stato-nazione italiano, non sia quella della democrazia e dell’attuale capitalismo? Una crisi che coinvolge persino i nuovi e decantati modelli neo-nazionalisti come quello irlandese?
Ma il quadro sarebbe troppo vasto. Allora un breve sussulto, e un dibattito surreale, lo ha creato la richiesta di messa in mora giuridica della rinuncia delle prerogative istituzionali sarde operata nel 1847 a favore del Piemonte: suggerirei un incontro – sarebbe una sponda favorevole – con il governatore piemontese Roberto Cota, favorito dalla sezione sardo-leghista di Trinità d’Agultu.

Non credo in realtà che per la tradizione comunista ci debbano essere preclusioni ideologiche sull’indipendenza: qualche riflessione teorica il nostro campo l’ha effettuata, ed è curioso vedere che molte delle definizioni di nazione impiegate in Consiglio regionale si rifanno alla vecchia e superata morfologia stabilita da Lenin. L’elemento decisivo ci sembra stia nel valutare se l’indipendenza possa essere davvero, più che un fine ed un riflesso narcisistico separatore, strumento per l’emancipazione dell’uomo e dell’ambiente dall’alienazione e dallo sfruttamento, costruendo su tali basi i processi di autocoscienza storica che chiamiamo identità.
Dell’identità, e della cultura ad essa così fortemente collegata (i disinvolti impieghi semantici dei nostri politici, spia di scarsa confidenza col tema, non aiutano a chiarire), come se ne sta parlando?
La questione non è semplice, ma temo intanto che una sua soddisfacente definizione rischi di allontanarsi fraintendendo i contesti formativi. Intanto quelli moderni e contemporanei, laddove si sottolinea come la crisi del Novecento sia soprattutto un conflitto fra identità nazionali, forme statuali in crisi e globalizzazione, piuttosto di considerare tale conflitto aspetto di un dramma ben più profondo. Laddove non si coglie che l’attacco ai beni culturali e al paesaggio è globale, nella logica capitalistica; non degli ‘italiani’ come affermano i sardisti. Verrebbe da chiedere a Maninchedda se il paesaggio urbano di Tuvixeddu sia stato devastato dal colonialismo italiano o da capitalisti (peraltro sardi).

Permeato dall’affanno di sostenere la nostra diversità scorre un dibattito vecchio, formale, senza vitalità, con molte frasi di stampo anni Settanta; con linguaggio da archeologo, un manufatto di matrice stanca.
Non vi è neppure traccia della discussione sulla ‘forma’ etnocentrica o meticcia dell’identità, problema che oggi pare rilevante. Figurarsi se si mette in dubbio il termine ‘diversità’ (o quello quasi gastronomico di ‘specialità’), se può apparire almeno il dubbio che lo stesso termine meticciato, nel suo generoso proporre identità multiculturali, o plurali come si ama dire, sia lo specchio di un’accettazione del concetto della razza. Magari la lettura di Logiche meticce e Connessioni di Jean-Loup Amselle potrebbe essere di aiuto.
Credo che sia da condividere quanto detto in consiglio regionale da Radouan Ben Amara: la risposta non può essere un “rigurgito nazionalitario, simile al leghismo, simile al nazionalismo”, quanto la ricostruzione di un legame neo-meridionalista.

Le rare ‘prese in carico’ del patrimonio culturale sono associate a direzioni geografiche o ideologiche selezionate: Mario Floris pensa ad: “una vera ed unica piattaforma culturale ed economica dell’Europa e dell’Italia proiettata verso i paesi afro-asiatici”. Il PDL evoca le “bimillenarie radici cristiane della società sarda, punto di approdo del lungo cammino del suo popolo”: frase papalina già nel programma elettorale di Cappellacci per quelle elezioni poi vinte – niente male per un centro-destra nazionalitario – da Silvio Berlusconi, a cui vennero offerte, come nelle vere sconfitte, le insegne dei Quattro Mori. Assieme, le due proposte sembrano comporre una nuova crociata: un’Europa e una Sardegna cristiana per evangelizzare e conquistare i mercati di Africa e Asia.

Ed è anche significativo il concetto di ‘punto di approdo del lungo cammino del suo popolo’, paradossale nel suo darwinismo per dei convinti credenti, dal quale consegue l’inferiorità degli antecedenti precristiani: preistorici, nuragici, fenici e romani. La visione antropologica non supera l’Ottocento, simile, ma assai meno elaborata, al ‘survival’, la ‘sopravvivenza’, di Tylor. Ma il survival si può recuperare nel ‘mito’ post-tribale commerciale, ed ecco il filo-atlantideo Nur.At.
Attorno a questo quadro politico di destra ronzano copiose produzioni di esoterismi e falsi archeologici proposti da vittime incomprese della scienza colonialista. In Padania, con la favola di Alberto da Giussano, è già successo. Noi, con un pullulare di invenzioni ridicole, siamo sulla buona strada.

Neppure il PD e la sinistra danno un quadro incoraggiante. La sostanza delle linee culturali del PD (quelle soriane, perché delle altre non vi è traccia), assenti nel dibattito si presuppongono da segni già noti: il pasticcio della Limba Sarda Comuna, l’idea del passaggio delle competenze sui beni culturali e quelli ambientali alla Regione Sarda senza costruire veri strumenti indipendenti, ma rischiando di consegnare nel frattempo a potenti gruppi esterni (come nel tentativo per le pregiate zone minerarie) la gestione di musei ed aree archeologiche. La promozione del mito di Atlantide nel Piano di Sviluppo Turistico del 2006. antecedente di Nur.At. Sarà forse una coincidenza casuale, ma curiosa, che nel dibattito regionale l’onorevole Vargiu dia un riconoscimento positivo a Renato Soru.
E a sinistra, smarrito il contatto con il mondo del lavoro vecchio e nuovo, l’occasione di riqualificarsi cavalcando l’indipendentismo appare per molti ghiotta, e gli approfondimenti culturali e identitari latitano. Mentre seguiamo da anni – pur non condividendo le linee indipendentiste – il serio tentativo di IRS di coniugare liberazione, identità, autogoverno, non-nazionalismo verso una ‘nazione’ democratica, inclusiva ed aperta, nella sinistra ‘neo-nazionalitaria’ tale riflessione, ad onta dell’improvvisa apparizione di molto combattivi documenti, dalle sezioni, nelle assemblee o nei luoghi digitali della sinistra ci è sembrata assente o assai debole.
Può darsi che i nuovi media, anche via sms, abbiano avuto il sopravvento sulla costante fatica di fisiche assemblee partecipate e sudate fra militanti, dove convincere o essere convinti, e costruire nel tempo un dibattito reale.
Si discute staccati da un popolo sardo molto evocato, che pare altrove.
Si annunciano propositi di coinvolgerlo, ma i nostri rappresentanti, così malcerti nel definirlo, lo troveranno?

Non a torto Nicola Rassu del PDL è spaventato dal “ silenzio assordante che sta accompagnando questi dibattito, silenzio del mondo dell’impresa e di quello culturale”. Manca all’appello dei silenzi – ma non possiamo chiedere troppo a Rassu – quello operaio, che peraltro trova drammatiche forme espressive mentre le fabbriche sarde continuano a chiudere.
Ma non si preoccupi l’ex- sindaco di Torralba: alla fin fine ha ragione quella vecchia volpe democristiana di Felicetto Contu quando dice “ho fiducia che quest’assemblea sappia difendere la nostra identità politica”.

 

domenica 26 settembre 2010

Ops, mi è scappata l’indipendenza

Riprongo l'interessante contributo presente anche presso http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/2010/09/25/ops-mi-e-scappata-lindipendenza/

Sul Corriere della Sera del 25 settembre 2010 ci sono ben tre pagine dedicate alla Sardegna e al “furore” indipendentista di cui la nostra terra sarebbe preda. Inviati del calibro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sulla curiosa evenienza di un consiglio regionale (organo istituzionale dell’ordinamento giuridico italiano) in cui si discetta sul se, come e quanto separarsi dall’Italia medesima.
Il grado di approfondimento è tragicamente basso, questo va subito precisato. Una analisi abbastanza deludente. Si tira in ballo Cossiga, si citano – con evidente sconcerto – i grandi nomi della politica italiana originari della Sardegna, esponendoli come un contrappeso alla pretesa di “separazione” dall’Italia, che risulterebbe dunque un vero paradosso.
L’autorità politica consultata in merito, poi, è nientemeno che Mariotto Segni. Cosa ne sappia Mariotto Segni di indipendentismo e – mi sa – di Sardegna in generale sarebbe un mistero, se non ci desse una risposta egli stesso con le sue dichiarazioni. E la risposta è che non ne sa niente.
Nell’insieme questa ventata di “follia” (come la definisce lo stesso Segni) viene ricondotta alla situazione socio-economica dell’Isola, definita “da brivido”, e alla perdurante arretratezza di noi poveri sardignoli. Anche qui, la parola  viene data a un grande della elaborazione politica nostrana: Felice Floris, leader del Movimento dei Pastori Sardi, una vera autorità. A dire il vero, non risulta che sia indipendentista manco lui; ma sembra – a leggere il CdS – che sia questo il meglio che passa il convento.
Insomma, tanto folclore, molta “Sardegna ultima colonia”, e un sacco di cliché ben degni dello spettacolo offerto dai nostri rappresentanti in consiglio regionale. E l’indipendentismo come risposta emotiva e contingente a una situazione di malessere materiale e di debolezza culturale.
In ogni caso, per mettersi al riparo da qualsiasi possibile equivoco (non sia mai che a qualcuno venga in mente di considerarla una prospettiva plausibile) allo spazio dedicato alla questione “indipendenza” viene subito affiancata una pagina di Manlio Brigaglia, storico tempiese, in cui si racconta di uno dei primi martiri dell’indipendenza. Italiana però. Ossia di quell’Efisio Tola, mazziniano, fucilato  per “sedizione” a 30 anni, nel 1833. Ecco qui serviti tutti i “matti” (sempre Segni) fautori del “separatismo”: i sardi buoni esistono (o sono esistiti) e sono quelli che si sono sacrificati per l’Italia (come da retorica della Brigata Sassari, del PSdAz, dello stesso Renato Soru, ecc. ecc.).
Eppure, alla fin fine, rimane l’impressione che a molti stia sfuggendo di mano l’intera faccenda. Nel mondo della comunicazione di massa non si infrange un silenzio a buon mercato. Legittimare pubblicamente e autorevolmente una parola (e il concetto che le si associa) significa renderla libera di agire sulle coscienze e sull’immaginario collettivo. Gli stessi promotori delle mozioni di cui si è discusso in consiglio regionale – di per sé scadenti e limitate, salvo rari spunti di interesse, gettati lì in modo disordinato e incoerente – non sembrano rendersi conto che questo genere di eventi possono essere dei detonatori per un salto di qualità dei processi in corso. Ossia, non determinarli, ma dare ad essi uno sfogo prima impensato, spesso a dispetto delle reali intenzioni di chi da il via alla cosa.
La storia insegna, a questo proposito. Uno pensa a una bega fiscale, e si ritrova nel bel mezzo della Rivoluzione Americana. I Francesi minacciano di invadere la Sardegna e dalla reazione legittimista a difesa dello status quo ti scoppia tra le mani la Rivoluzione Sarda. Certe inerzie storiche, una volta smosse, hanno una forza che le trascina a prescindere dalla volontà degli uomini, come se ci fosse una energia potenziale che, una volta scatenata, non è facile bloccare fino a che non si è scaricata.
Staremo a vedere quello che succede. Certo è che ci aspettano mesi e anni quanto meno interessanti.

martedì 14 settembre 2010

Il senso di Vespa per le tette

Riporto integralmente l'articolo de Il Fatto Quotidiano di Michela Murgia indicativo di una certa idea, ahimè profondamente vero e radicato.

Se siete donne o uomini non ha importanza, perché il gioco di ruolo che vi propongo si può fare comunque con profitto. Provate a immaginare di essere un giovane scrittore talentuoso e di aver scritto un bel libro. Il vostro valore letterario è tale che vi assegnano addirittura un premio Campiello. Immaginate di mettervi un bellissimo smoking per andarlo a ritirare e di sedervi composto in prima fila insieme alla vostra compagna nella cornice strepitosa del teatro della Fenice, gremita da centinaia di persone eleganti.
Per ultimo immaginate che a quel punto la presentatrice vi chiami a salire sul palco per premiarvi e, mentre voi emozionatissimo fate le scale dando ancora le spalle alla platea, costei vi tenda la mano esclamando giuliva: “Ecco il vincitore, e prego la regia di inquadrargli la strepitosa patta dei calzoni”. In quel momento, dopo quella frase volgare, voi dovrete voltarvi e offrirvi al pubblico con la consapevolezza che quelle centinaia di persone punteranno i loro occhi ormai avidi e curiosi all’altezza del vostro inguine, del tutto dimentiche che il motivo per cui vi trovate su quel palco nulla c’entra con la patta dei vostri calzoni. Se questa scena vi sembra surreale, è perché lo è, ma è esattamente questo che Bruno Vespa ha fatto a Silvia Avallonepremio Campiello.
sabato scorso al Un corpo a disposizione
Sui giornali la sua scivolata poco signorile è stata rubricata con definizioni come “pesante apprezzamento” o “complimento di troppo”, come a dire che “sei bellissima” e “inquadratele il decollétè” sono due frasi che esprimono lo stesso concetto. Non è così, è una menzogna: Vespa non ha fatto un complimento alla bellezza di Silvia, perché invitare un cameraman a inquadrarle la scollatura non è un modo per dire che quello che c’è dentro è apprezzabile: è prima di tutto un modo per dire che è fruibile, che è a disposizione di chiunque voglia guardarselo, sia che si trovi seduto nella poltrona di velluto del teatro della Fenice sia che si trovi sdraiato davanti alla televisione sul salotto di casa sua. Fatta salva la sensibilità di Silvia Avallone, in un caso come questo non è solo la persona che subisce l’esposizione a stabilire se si tratti o meno di una cosa offensiva: l’uso del corpo femminile come pubblico demanio, come pascolo aperto allo sguardo gratuito di chiunque, è un atto offensivo verso tutti e tutte per il contenuto di violenza che si porta dietro.
La violenza non è solo nello schiaffo, è soprattutto nel pensiero di sopraffazione, nell’uso di un potere per disporre dell’altro a proprio gusto, nel zittire la sua lamentela invocando il senso dell’umorismo, nel cercare di far passare per complimento la riduzione di una persona intera al suo corpo o a parte di esso, piegata a decoro televisivamente strumentale. Ho letto anche che quello che ha fatto Vespa sarebbe stato scorretto perché Silvia Avallone è una scrittrice brava e intelligente e non stava bene spostare l’attenzione del pubblico sulla sua avvenenza fisica.
Io non sono sicura che la gravità di quella frase stia solo nello svilimento dell’indubbio valore intellettuale di Silvia. Sono anzi convinta del contrario: quello che Vespa ha fatto sarebbe stato scorretto anche e soprattutto se avesse avuto accanto una donna sciocca e senza nessun altro talento che quello contenuto nella sua scollatura. Sbaglieremmo a legittimare l’idea che una donna intelligente abbia più diritto al rispetto di una donna stupida: daremmo licenza a chiunque di considerarla a sua disposizione o a quella invasiva della telecamera, che simbolicamente è la stessa cosa.

L’importanza delle parole

Impossibile non vedere le analogie tra la naturalezza con cui Vespa ha domandato l’ostensione fisica della Avallone all’occhio della telecamera e le frasi di Silvio Berlusconi a Rosy Bindi, in quel caso giustamente rintuzzate con la negazione di una disponibilità, che non va però intesa nel becero senso di mancanza di compiacenza verso la sedicente galanteria, ma in quello ben più profondo di esercizio del diritto di non essere usate: né per compiacere il maschio dominante, né per decorare un palco, né per fare audience televisiva. Chi rivendica questo diritto non è una beghina né un perbenista, ma una persona che si rifiuta di considerare normale, spiritosa o addirittura lusinghiera la riduzione di un altro a oggetto d’uso a servizio di un potere. Al servizio di questa mentalità Bruno Vespa non è l’oggetto principe della critica, anzi direi che è l’ultimo arrivato, oltre che l’ennesima occasione per fare il mio mestiere: guardare alle parole come cose importanti, come veicoli di senso, pesarle per quello che trasportano e rispettarle o temerle per quello che costruiscono.


Da il fatto quotidiano http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/07/il-senso-di-vespaper-le-tette/57464/

martedì 24 agosto 2010

In morte di Francesco Cossiga

L’articolo di Sedda (http://www.irsonline.net/2010/08/in-morte-di-francesco-cossiga/), che giustamente evidenzia la strutturale differenza tra movimento autonomista ed indipendentista, mi spinge ad una considerazione: basandosi sulla mancanza di politici di spicco di origine sarda che sappia riprendere nell’alveo nazionale italiano il posto di quello che ebbero i vari Berlinguer, Cossiga, Segni, è possibile (auspicabile) che possa accellerarsi il processo di progressivo scollamento tra la classe politica isolana e quella continentale.
Nel dettaglio, la mia ipotesi si basa sulla capacità dei Sardi di identificarsi in politici locali di rilevanza nazionale (italiana). 
E’ ovvio che una rappresentanza di tipo importante (es Presidente della Repubblica- Ministro o altro) aumenti nell’immmaginario collettivo la sensazione di appartenenza ad un organismo più grande.
Ma la “leva” dei politici Sardi post secondo dopoguerra non ha lasciato eredi. I Pisanu, Cicu, Parisi, Diliberto, Angius sono delle seconde linee, Soru è impegnato a risollevare le sorti della propria azienda, lo scarso potere in termini di seggi stanno immancabilmente distaccando dal sentire comune dei Sardi la politica “romana” da quella locale. Addirittura in certe aree (Gallura) si vede come locale un politico come Berlusconi che ha la seconda (?) casa a Porto Rotondo.
Insomma c’è una progressiva spersonalizzazione, aumentata dalla attuale legge elettorale che lascia campo libero ai partiti politici candidare chi si voglia dove si crede.
Ma il delegare ad altri che erano in un certo qual modo rappresentanti del territorio paga se quel qualcuno ha un peso, insegna la storia dell’Italia repubblicana. 
Questo aspetto potrebbe essere un efficace grimaldello per quella forza politica che volesse scardinare la catena “sardo&italiano” che personalità quali il Cossiga, peraltro con un senso del (suo) Stato encomiabile, hanno tenacemente portato avanti.
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lunedì 16 agosto 2010

Nuovo capitolo dell'odissea Tirrenia

L’auspicio di IRS, temo, rimarrà lettera morta. Le altre forze politiche in maniera più o meno consapevole latitano, ed i media, oltre le solite “veementi proteste” tra qualche giorno avranno tranquillamente dimenticato una questione non politica ma strutturale. Ovvero la capacità della Sardegna di fare “sistema” e di tutelare i propri interessi. Avere una compagnia di navigazione nazionale potrebbe:
- agire come volano per l’economia interna, fornendo importanti opportunità di occupazione diretta (dipendenti) e di indotto (catering, lavanderie ecc..) e gettito fiscale (la sede sarebbe evidentemente in Sardegna)
- partire da una situazione di vantaggio competitivo sfruttando come leva di marketing la sardità per il mercato interno ed un pricing aggressivo per i turisti
- sfruttare sinergie con altre attività che potrebbero trarne beneficio (cantieristica per dirne una).
Ma quanto potrebbe essere financo ovvio in altri paesi o anche semplicemente regioni italiane qui è chiaramente osteggiato
- da organizzazioni sindacali preoccupate solo di mantenere i loro tesserati
- da una parte politica che forse si era già “venduta” la Tirrenia
- da una lobby che evidentemente vuole favorire solo compagnie private.
Eppure proprio in una situazione confusa come questa dove, anche con investimenti molto contenuti, si potrebbe davvero rendere operativa una realtà di trasporto marittimo focalizzata sulla Sardegna e le sue reali esigenze, il poco spessore dei nostri attuali governanti si esprime con stratosferica pochezza.
Alla miopia in termini di visione economica che peraltro è stata la costante dei tanti governi di ogni colore avuti fino ad oggi, si affianca una ignavia inconcepibile in una situazione tanto favorevole.
L’ennesima occasione buttata a mare?

lunedì 2 agosto 2010

La Sicilia si compra la Tirrenia, la Sardegna un passaggio ponte

Riporto questa mia considerazione, presente anche presso http://www.irsonline.net/2010/07/tirrenia-pagheremo-le-tasse-a-palermo/


La vendita della compagnia di navigazione Tirrenia alla regione più indebitata d’Italia avrebbe dell’inverosimile se non fosse inverosimile l’intera situazione, che appunto risulta paradossalmente normale nella terra dei cachi nella quale siamo (temporaneamente) ubicati.
La regione Sicilia, o piuttosto i suoi governanti, hanno ancora una volta visto giusto. Dopo il salasso perpetrato ai danni di Tremonti mesi addietro, con la poco velata minaccia di un PDL che perdeva la sua regione più fedele e che ha visto miracolosamente aprirsi i cordoni di una borsa sempre ben chiusi per le necessità dei Sardi, ora i governanti siculi trovano un ennesimo straordinario serbatoio di voti, acquistato con i soldi dei contribuenti italiani, dunque a costo zero.
Il tutto con indifferenti spettatori i governenti della Sardegna, ovvero coloro che più avrebbero dovuto battersi per avere servizi marittimi degni di questo nome, magari, perchè no, con personale sardo.
Già, perchè senza la Sardegna la Tirrenia perde la sua stessa ragion d’essere. Ma questo, a chi è troppo impegnato a non far cadere (o a far cadere,ma è un alleato) il governo della regione “autonoma”, non interessa.

E così nel futuro abituiamoci a vedere cambiare l’accento da napoletano a siciliano del marittimo che ci dirà che i panini sono finiti,che la cuccetta in effetti è sporca, che il modulo per i danni alla tua auto non lo trova.
Il tutto nell’ennesimo totale spregio dei nostri interessi e nell’indifferenza della nostra inqualificabile classe politica.

mercoledì 28 luglio 2010

Probovirus

Inoltro integralmente l'esilarante (ma ovviamente assai realistico) articolo di Marco Travaglio su "Il Fatto Quotidiano" , reperibile in originale presso
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/27/bisogna-essere-grati-all%E2%80%99onorevole-granata-non/44542/

Buona lettura

Bisogna essere grati all’onorevole Granata
non solo per aver detto ciò che tutti sanno, e cioè che negando la protezione a Spatuzza il governo ostacola la lotta alla mafia. Ma anche per altri due fondamentali motivi. Primo, aver turbato i sonni di Pigi Battista, che intravede nella sua dichiarazione quel “certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti” (magari!). Secondo, avere riportato alla luce una specie zoologica che si temeva estinta, più rara e inaspettata dell’ippogrifo, del centauro e dell’ircocervo: il proboviro del Pdl. Pare che, ibernati nel museo di storia naturale di Palazzo Grazioli, ne esistano addirittura dieci esemplari. Di più non se ne son trovati, visto che incarnano altrettanti ossimori: oltreché viri, essi devono essere pure probi, il che per il Pdl costituisce una contraddizione in termini. Il loro presidente è un anziano filosofo sui 90 anni, Vittorio Mathieu.

Poi c’è un compagno di classe di B., Guido Possa, poi c’è un pluritrombato ex fondatore di Forza Italia appena distaccato in una società Rai, poi ci sono la signora Armosino e un giudice che lavora con Alemanno, Sergio Gallo, che andava ai convegni di magistrati organizzati dalla P3; completano il quadro tali Tofoni, Sisto, Casali e un certo Cella (un nome, un auspicio). Come rivela Urbani – il più vispo fra i dieci – in due anni di Pdl l’illustre consesso non si è mai riunito. Del resto non ve ne sarebbe stato motivo: in un partito che annovera B., Dell’Utri, Previti, Cosentino, Verdini, Brancher, Scajola, Fitto, Cicchitto, Letta, Cappellacci, Scopelliti, Brancher, Matteoli, Lunardi, Caliendo, Ciarrapico, Angelucci e altri gigli di campo, i probiviri non hanno molta scelta. O si suicidano in massa, oppure per far prima cacciano chi osa parlare di legalità e questione morale. Brutte parole, pure provocazioni. Quando Fini, all’auditorium della Conciliazione, si lasciò scappare “legalità”, la sala fu scossa da un fremito di emozione mista a sdegno e sgomento.

B. rischiò di perdere pure i capelli finti, Verdini accennò alla fuga, Bondi rischiò l’ipossia e La Rissa l’embolo. Ora questo Granata si azzarda addirittura a negare la solidarietà a Dell’Utri, si dice contrario al monumento equestre per Mangano e, non contento, parla financo di lotta alla mafia. Delle due l’una: o è comunista o è indemoniato. La sua incompatibilità balza subito agli occhi di Maurizio Lupi, il ciellino amico di Abelli (vedi scandalo Poggi Longostrevi e voti della ‘ndrangheta) e di Grossi (quello della splendida bonifica a Milano-Santa Giulia): “Granata contraddice i nostri valori fondanti (probabilmente quelli custoditi al Credito Fiorentino di Verdini, ndr). O se ne va o finisce ai probiviri”. Littorio Feltri parla di “intelligenza col nemico”, senza peraltro indicare il nemico (lo Stato? L’antimafia? La legge?); ma il problema vero è l’intelligenza, tara davvero inaccettabile da quelle parti. La Rissa, triumviro del Partito dell’Amore, suggerisce a Granata “il ricovero in ospedale” e dà del “quaquaraquà” (dotta citazione di don Mariano, il padrino del Giorno della civetta). Urbani, molto viro e soprattutto molto probo, anticipa il verdetto: “C’è un’evidente incompatibilità culturale con la stragrande maggioranza del partito”.

La cultura in questione è quella che si insegna all’Università telematica del Cepu, di recente visitata da B., dove Dell’Utri è docente di Storia contemporanea (imperdibili le sue lezioni sui falsi diari del Duce) e Ubaldo Livolsi di Mercati finanziari internazionali (rinviato a giudizio per concorso in bancarotta); ma anche all’annuale seminario di Gubbio, dove il mese prossimo i professori Bondi, Cicchitto, Schifani e Carfagna sviscereranno il tema “Competenza e onestà per una buona politica”. Ancora incerta la presenza di Cosentino che, nel caso fosse ancora a piede libero, dovrebbe chiudere il simposio con una lectio magistralis sull’arte del dossier nel Terzo millennio, dal titolo “Quel culattone di Caldoro, fra bocchiniani e bocchinari”.

lunedì 19 luglio 2010

Eolico: iRS chiede le dimissioni di Cappellacci

Il comunicato del Segretario dell'IRS mette in luce, a mio avviso, due aspetti distinti eppure facce della stessa medaglia.
- Questione morale: occorre differenziare nettamente il comportamento della classe politica indipendentista da quella pseudo-autonomista. Nessuno sconto deve essere dato a chi in nome di poco chiari comitati d'affari svende il territorio in nome di un molto presunto sviluppo economico. Deve essere chiaro in tutte le sedi che il Cappellacci dovrebbe presentarsi dimissionario in giunta. Sappiamo bene che questo non accadrà mai, ma dovrebbe levarsi un movimento popolare che, come in altre circostanze, possa spingere alla decenza chi evidentemente trova normalità quanto in altri paesi sarebbe semplicemente impensabile. Occorre, anzi, differenziare la Sardità come elemento di distizione, di rettitudine, di rispetto dei valori a fronte di una Italianità che, purtroppo, fa rima con malaffare.
- Questione politica
E già il termine "Regione Autonoma" provoca dell'involontario umorismo. A quale autonomia si possa ispirare una classe politica che attende non già da un qualche ministro per lo sviluppo economico o industria (il dimissionato Scajola, quello che non sapeva come avesse pagato casa propria) indicazioni sull'eolico in Sardegna ma dal coordinatore nazionale del proprio partito farebbe sorgere più di un dubbio. Se a ciò si aggiunge il fior fiore del Piduismo isolano, abbiamo la prova provata che davvero non si è governati da movimenti politici ma da lobbies più o meno potenti, più o meno spregiudicate nel raggiungere i propri obiettivi palesemente incuranti del bene comune del quale dovrebbero farsi carico. Pertanto, ancora, l'indipendentismo deve porsi come elemento di separazione netta ed indiscutibile con situazioni poco chiare, a costo di essere impopolare.

Quanto accade in questi giorni dovrebbe davvero muovere le coscenze ed accellerare il processo di mobilitazione delle coscenze. Fatti quali questo scandalo fanno aggio a chi propugna la piena indipendenza: paradosalmente Cappellacci sta facendo un ottimo servizio alla causa indipendentista.

martedì 29 giugno 2010

Il Vaticano crocifigge Saramago

Riporto integralmente l'articolo di Paolo Flores D'arcais uscito su MicroMega

“José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo”. Mentre le agenzie di stampa battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli.

Evidentemente gli indimenticabili romanzi del premio Nobel portoghese hanno la capacità di coinvolgere il lettore “corpo e anima”, sollecitarne lo spirito critico e insieme le emozioni e la fantasia, anche di fronte ai temi sui quali la Chiesa gerarchica vorrebbe esercitare un occhiuto monopolio, se l’ “house-organ” del preteso Vicario di Cristo in terra ha sentito il bisogno irrefrenabile di vomitare a tambur battente un “vade retro!” di ingiurie sconnesse, a cadavere ancora caldo, anziché il “requiescat in pacem” canonico.

Si comincia con un “sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l’abbia tenuto in vita a tutti i costi”, che vorrebbe utilizzare in modo ironico una frase del suo romanzo Tutti i nomi, e che invece trasuda semplicemente livore e volgarità.

Dopo di che inizia il rosario delle accuse contro i suoi romanzi, il loro contenuto, lo stile, tutto: “la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo” (e ci mancherebbe altro, visto che fa il romanziere e non lo storico), “una struttura autoritaria totalmente sottomessa all’autore, più che alla voce narrante” (alla “penna” del Papa sfugge che - a condurre il gioco sia la voce narrante o l’autore - “Madame Bovary c’est moi”, come spiegava Flaubert e come vale per qualsiasi scrittore), “una tecnica dialogica in tutto debitrice all’oralità” (dove non si capisce in cosa consista il difetto, visto che l’impasto narrazione-oralità è uno degli elementi stilistici che rende memorabili le opere di Saramago), “un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l’impronta ideologica d’eterno marxista”: ecco, ci siamo, è questo che manda in bestia il quotidiano del Papa. E soprattutto “un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione”.

La grandezza letteraria non c’entra, insomma. L’Osservatore romano è infatti patetico quando tenta di ridimensionare sotto il profilo della creatività un’opera che ha reso Josè Saramago il più grande scrittore vivente, quello che riesce a imbastire è solo un processo in perfetto stile sant’uffizio. Prima imputazione: “per quel che riguardava la religione, uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro (…) Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico”. Ora, la parola “uncinata” evoca in italiano per prima cosa la “croce uncinata”, assonanza hitleriana da lapsus autolesionista, aggettivo che andrebbe accuratamente evitato sul giornale di un Papa che in gioventù indossò la divisa della Hitlerjugend. Ma quando si è in preda alla furia dell’odio teologico non si controlla più quel che si dice.

Del resto, poiché l’altra immagine evocato da “uncinato” è quella dei ganci a cui vengono appesi i quarti di bue dai macellai, in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. Infine resta l’interrogativo: l’autore del cristiano necrologio vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.

In che cosa consisterebbe, poi, “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato da Claudio Toscani? Di aver sostenuto (la sintesi è del “Carneade”) che “se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa” e dunque di essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza”. Cioè di aver illustrato con strepitoso talento narrativo le antinomie della teodicea, delle quali i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi. Oltretutto Toscani, da improvvisato filosofo, dimentica che la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza non è l’onniscienza, ma l’infinita bontà e/o giustizia, visti gli orrori di cui è colmo il “Suo” creato.

Ma l’opera che ha fatto venire alle gerarchie della Chiesa un autentico travaso di bile, che a distanza di venti anni ancora perdura, è evidentemente il Vangelo secondo Gesù, “sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare”. Non lo sa l’amanuense del Papa, lo sanno benissimo invece i milioni di appassionati lettori, e gli storici del cristianesimo primitivo, per i quali è acquisito che il profeta ebreo itinerante di Galilea chiamato Gesù non si considerò mai il Messia (per una minoranza, al limite, “Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce”, proprio quanto Toscani imputa a Saramago!), e che effettivamente “Maria Gli è stata madre occasionale” al punto che di Maria di nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21).

Quando il paladino del Vangelo secondo Ratzinger conclude, lancia in resta ma prosa un po’ contorta, che “la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo”, si può solo dire: “de te fabula narratur”.

Del resto, l’odio teologico impedisce il rispetto della logica e perfino il rispetto dei fatti, visto che come botta finale l’Osservatore romano rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.

Saramago chiamava tutto questo “comunismo”, ma come ha ricordato Luis Sepúlveda, per Saramago “essere comunista nel confuso secolo XXI” era semplicemente “una questione di etica di fronte alla storia”, non era ideologia ma intendere “la solidarietà come un fatto collegato al vivere. Nessuno si è sacrificato tanto per tante cause giuste e in così poco tempo”.

mercoledì 9 giugno 2010

Considerazioni sul risultato delle elezioni provinciali in Sardegna: il caso IRS


Il risultato della competizione elettorale, che peraltro vede IRS raddoppiare i propri voti, tuttavia non deve trarre in inganno. I risultati infatti sono di difficile analisi.
Infatti IRS ha ottenuto risultati consistenti solo in situazioni dove vi sono leader riconosciuti (Gavino Sale in Tàtari ) o una presenza sul territorio radicata (in Nùgoro et Aristanis, per esempio) come peraltro ben illustrato all'interno del grafico, preso direttamente da http://www.irsonline.net.
Pure in aree a componente elettorale potenzialmente vicine ad IRS (Campidanu et Ogiastra) i risultati non sono stati così eclatanti, mentre come era prevedibile in Gaddura non è passato il messaggio.

A mio avviso l'unità delle forze indipendentiste è la conditio sine qua non per la creazione di una forza politica che aspiri ad essere Natzione; sarebbe la prima critica che gli avversari muoverebbero a IRS, continuando rimestare la solita minestra dei "pocos locos y mal unidos".
Gli esempi dei partiti che hanno portato poi i loro popoli all'indipendenza certo non passa per distinguo magari non secondari (penso a quanto accadde in Irlanda per esemio) ma per certo in questo moemnto, ancor più di altri, è necessaria l'uinone delle forze indipendentiste, che formerebbero quindi quella massa critica di cui il movimento indipendentista necessita per avere dapprima rilevanza a livello egionale (tutt'oggi non presente) e quindi in parlamenti italiani.

IRS, infatti, non fa ancora paura, nè vista ancora come chi davvero può essere protagonista della scena politica isolana. L'iconografia comune, infatti, vede ancora il movimento come un gruppo di simpatici utopisti dall'italianoa approssimativo vestiti in velluto che si arrabattano in questioni senza senso compiuto tipo una battaglia della quale la stragrande maggioranza degli stessi Sardi non conosce l'esistenza.

Il mio pensiero è che invece IRS deve diventare antipatica, rendersi fastidiosa al potere sollevando questioni reali come quella dell'eolico o delle tasse inique sugli agricoltori, e che smascheri ogni situazione (e ce ne sono a bizzeffe) in cui i partiti del continente latitano o semplicemente non fanno l'interesse della Sardegna.
Il mio auspicio, dunque, è che IRS diventi davvero movimento di popolo, diventando appunto quanto nel suo acronimo, Repubrica del Sardigna.

Considerazioni sul risultato dellelezioni provinciali in Sardegna

lunedì 24 maggio 2010

Dieci aforismi di Ennio Flaiano

Qualche anno fa mi sono imbattuto in un libro di Ennio, "Tempo di uccidere". Sono rimasto affascinato dalla sua maniera ed ho seguito a leggere alcuni altri suoi scritti, come "Un marziano e Roma ed altre farse" e "La solitudine del satiro".
Voglio mettere sul mio blog 10 begli aforismi di quest'uomo di intelligenza sopraffina, geniale ma davvero amaro nella sua maniera di vedere il mondo e l'uomo.

1.
Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l'errore e il contrario di un errore fosse la verità. Oggi una verità può avere per contrario un'altra verità altrettanto valida, e l'errore un altro errore.

2.
Io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa molto diversa.

3.
L'italiano, nella sua qualità di personaggio comico, è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito.

4.
Il dramma della vita moderna è questo: tutti cercano la pace e la solitudine. E per il fato stesso di cercarle, le scacciano dai luoghi dove si trovano.

5.
La religione è finita. Non c'è più nessuno che si vanti di aver portato a letto una suora.

6.
L'oppio è ormai la religione dei popoli.

7.
La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia.

8.
Il vero psicanalista delle donne è il loro parrucchiere.

9.
Il pensare ai buoni momenti del passato non ci conforta perché siamo convinti che oggi li sapremmo affrontare con maggiore intelligenza e trarne migliore profitto.

10.
Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole.

martedì 11 maggio 2010

Il "Tottismo" come degenerazione della personalizzazione del calcio

Conio questo neologismo dopo l'ennesima vicenda che vede implicato come protagonista il capitano dell'A.S. Roma; ciò non perchè sia una novità, ma semplicemente perchè mi sto rendendo conto che i media (tv, radio, ma anche stampa) sono sostanzialmente succubi di questa strana forma di altalenante sportività, di questo buonismo di facciata, di quest'elogio della simpatica sbruffoneria, tracotante e ignorante nello stesso tempo.

Ma andiamo con ordine.

Lo sportivo
Totti è senz'altro della sua generazione uno dei migliori trequartisti italiani. Ma, diciamolo chiaramente, se vediamo poi i risultati ci rendiamo conto della sua strordinaria sopravvalutazione. Un anno capocannoniere (lo sconosciuto Igor Protti lo fu in serie A, B e C) e con un palmares con la sua squadra certo importante se riferito all'AS Roma, ma che giocatori assai meno "fashion" come un Andrea Pirlo guardano comodamente dall'alto in basso. In nazionale, poi, neppure 10 gol, anni luce lontano da Riva. Campione del Mondo, ma appare molto al di sotto di gente come Gattuso, Grosso o Cannavaro. Insomma, un buon giocatore ma come almeno altri 5 in questi anni*.
Sulla sua condotta in campo, poi, chi segue questo sport sa bene che è sempre stato estremamente tutelato dagli arbitraggi. Quando questo non accade, la zuffa è estremamenete probabile. Avezzo a farsi giustizia da solo dei falli, specie in situazioni topiche qual finali di coppe o partite clou del campionato non di rado esce dal campo prima del tempo.

Il "buonismo Tottiano"
Altro aspetto da sfatare è quello del "santo". Che Totti abbia utilizzato la sua fama anche per iniziative di beneficenza è fuor di dubbio. Ma suoi best seller di barzellette non solo hanno portato avanti una visione del personaggio buono, semplice ma dalla cultura non eccelsa. Ha portato avanti, anche, un concetto che grosso modo si può riassumere così: non importa se non studi, se il tuo italiano è approssimativo, se fai dell'ignoranza voluta il tuo araldo. Sei un famoso calciatore, te lo puoi permettere, anzi sei simpatico, figo. In un paese dove il binomio calciatore/velina è portato quasi a parallelo del fiabesco principessa/principe azzurro, la sua icona è portata ad esempio come quella dello sportivo modello.
Ma come abbiamo visto, lo sportivo è, come dire, profondamente diverso dall'idea decubertiana dello sport.

La personalizzazione come identificazione del leader in una città
Un altro aspetto sinceramente discutibile del "Tottismo" è l'identificazione maradoniana di una squadra nel suo giocatore più rappresentativo. La AS Roma ha avuto nel quindicennio nel quale Totti è stato uno uno dei protagonisti fior di giocatori. Specialmente il periodo Capello vide una squadra piena di nazionali di diversi paesi, con importanti individualità che, in ogni caso, vengono meno nel corso degli anni mentre rimane, presunto incedibile, appunto "il capitano".
Ma lo stesso Totti, anche nel 2005 ovvero senza una squadra competitiva, minacciava di andar via senza un progetto serio. Insomma, capitano sì, ma di una squadra competitiva. Negli anni a seguire, con la generosa gestione della famiglia Sensi, la squadra ha comunque goduto di un discreto numero di buoni acquisti e di un buon numero di giocatori di buona qualità provenienti dalla primavera. Ciò ha fatto sì che il giocatore, che per certo lontano da Roma sarebbe stato tutt'altro che incriticabile o intoccabile, veda bene di ripensarci.
E a buon diritto questa può considerarsi la sua fortuna. Senz'altro altrove avrebbe vinto di più, ma avrebbe rischiato il posto che a Roma, anche al 30%, nessun allenatore oserebbe levargli.
Questo, ed una indovinata combinazione di orgoglio cittadino e retorica pseudostorica, creano un personaggio sostanzialmente incriticabile ( in casa propria) in quanto identifica sostanzialmente una modalità comunicativa e comportamentale che possono facilmente essere prese come identitarie di un certo concetto di romanità che si riassume facilmente in alcuni assunti
- noi siamo il calcio vero contro le beghe del palazzo
- le squadre milanesi e la juventus sono il palazzo, noi siamo contro questo calcio
- gli arbitraggi ci penalizzano, a prescindere
- in Europa non rendiamo perchè gli arbitraggi sono peggio che in Italia
Ovviamente questa lista è semplificativa, ma rende l'idea.


*Pirlo, Ambrosini, Gattuso, Del Piero, Buffon, Cannavaro






















*Pirlo, Ambrosini, Del Piero, Buffon, Cannavaro

lunedì 26 aprile 2010

Sa Burrida

Il tipico antipasto di pesce cagliaritano (ma anche secondo, alla bisogna) ha un'etimologia incerta. In liguria esiste la Buridda, una zuppa di pesce, ma quella cagliaritana si differenzia di molto da tutti gli altri guazzetti di pesce per diversi motivi
- l'aspetto, che oggettivamente non è bellissimo al contrario delle colorate zuppe di pesce che si trovano un po' dappertutto nel mediterraneo
- la particolarità del gusto, piacevolmente agrodolce per via della mescolanza di sapori salati, il dolce della cipolla e l'aceto, utilizzato nella preparazione della salsa
- l'utilizzo di un'unica varietà di pesce, tra l'altro non pregiatissimo: il gattuccio è sostanzialmente un piccolo squalo
- la modalità di consumazione, rigorosamente dopo le 24 ore
Ingredienti per una Burrida per 6 persone:
1 kg di gattuccio, che troverete agevolmente al mercato di San Benedetto; 9 noci, meglio se di grosse dimensioni e col gheriglio carnoso; 1 spicchio d'aglio; 1 mazzo di prezzemolo; 1 cipolla (io preferisco la rossa); aceto bianco, a proprio gusto; sale fino; pepe nero meglio se macinato fresco; olio d'oliva; almeno un limone;alloro in foglie

Avvertenze: la burrida è meglio se la preparano gli uomini. Non so perché, ma mi hanno detto così una volta e tutte le volte che ho assaggiato la Burrida fatta da una signora, magari una cuoca di prim’ordine, io me ne sono sempre accorto.

Preparazione: bevetevi prima un bicchierino di Nasco, che cucinare avendo sete non è bello.
Lavate e smazzate il gattuccio
Togliere il fegato e sbollentarlo a parte in acqua salata per 5-10 minuti. Quindi schiacciarlo come per farne un paté.
Lessare il gattuccio e lessarlo in acqua salata e l’alloro (io ne metto 2 foglie) per un quarto d'ora abbondante, spellarlo e quindi tagliarlo a tocchetti di 5 cm.
Sfarinare grossolanamente con le mani i gherigli delle noci ed unirci un po’ di aceto.

Ora, prepariamo la salsa, che dovrà essere cremosa e soprattutto abbondante, dato che dovrà ricoprire abbondantemente il pesce
In un tegame scaldate un po’ d'olio (un po’ meno di mezzo bicchiere), aggiungere l'aglio intero, la cipolla tritata finemente e il fegato. Fatta una amalgama di questo composto quindi aggiungeteci le noci ed aceto, secondo il proprio gusto. La Burrida era un piatto per poveri e l’aceto serviva, evidentemente, come conservante naturale. Magari cent’anni fa la Burrida sapevo molto più di aceto di oggi...un altro bicchierino di Nasco ci farà tornare nuovamente concentrati.

Nel frattempo che avrete preparato la salsa il gattuccio sarà bollito, perciò lo si scola (chi vuole ci lascia le foglie di alloro). Il pesce quindi è pronto per essere immerso nella salsa, dove riposerà meglio se in frigo per un giorno. Se le vostre mogli rompono i c. dicendo che gli infragate di aceto il frigo.. hanno ragione. Chiedete scusa ma dite loro di non rompere e che se non gli avete messo le mani addosso tutta la vita non vuol dire che non si possa cominciare oggi.

Il giorno dopo prendere la Burrida dal frigo, rimestarla delicatamente. E’ pronta. Certo, sembra il vomito di un gatto, ma è invece buonissima.

La carne soda e muscolosa del gattuccio ha assorbito gli aromi della salsa. Il dolce della cipolla si fonde con l’agro dell’aceto, il salato del fegato inframezzato ogni tanto dal croccante del gheriglio di noce.
La burrida è buona fredda ma è abitualmente servita a temperatura ambiente. Mangiatela con calma, orgogliosi del vostro operato, pensando c he state ripercorrendo in quel momento un pezzo di cultura e tradizione inalterato da secoli.

giovedì 8 aprile 2010

L'Europa del futuro

A seguire il mio commento all'articolo di Nello Cardenia visionabile presso http://www.irsonline.net/2010/03/europa-del-futuro/#more-2024

Indubbiamente la focalizzazione su quanto avviene in paesi diversi dall’Italia può essere utile per definire in quadro generale Europeo dell situazioni che potrebbero accomunarsi a quella Sarda. Ma debbo dissentire.

La nostra situazione non è affatto paragonabile a quanto avviene in Scozia o Catalogna per alcuni aspetti, Paesi Baschi per un altro, Corsica per l’ultimo.
I primi due sono regioni con economie assai ben integrate negli stati nazionali nei quali sussistono, ed anche demograficamente sono aree di una certa importanza.
I Paesi Baschi sono per alcuni aspetti più simili all’Ulster, per una presenza importante di una formazione paramilitare che invero è tristemente famosa per episodi di terrorismo piuttosto che per una democratica presa del potere.
La Corsica, poi, ha una popolazione autoctona inferiore a quella Francese residente sul territorio dell’Isola.
Assodato dunque che non vi sono de facto situazioni che calzino o possano essere da esempio, occorre delineare un proprio percorso.
IRS ha coerentemente intrapreso una politica che mira, in maniera franca, coerente e senza demagogie, all’indipendenza della Repubblica di Sardegna. Ciò è condivisibile, ma non è nulla di nuovo rispetto a quanto altre formazioni indipendetiste fanno da tempo.
Inoltre, razionalmente, verrebbe da pensare perchè l’indipendentismo non si sia riunito sotto un’unica egida al fine di massimizzare lo sforzo.
L’esperienze fatta nel continente da una formazione esecrabile per molti (quasi tutti) gli aspetti ma estremamente efficace da un punto di vista elettorale come la Lega nord dovrebbe invece far riflettere su alcuni aspetti:
- nel nord Italia non ci sono più leghe ma una sola, che pure a precise connotazioni regionalistiche (un leghista genovese o astigiano è molto diverso da un bergamasco o trevigiano) poi riassume il tutto in una partito monolitico
- la Lega punta tutto su 2 aspetti: la facilità del messaggio ed il radicamento sul territorio. Il messaggio è elementare :”Le tasse del nord debbono essere spese maggiormente al nord”. Ora, paradossalmente un partito indipendentista ha un messaggio ancora più impattante “Le tasse non vanno da nessuna parte, stanno semplicemente dove vengono esatte e sono utilizzate totalmente nel territorio”
Il radicamento sul territorio, poi, è l’altro cardine sul quale si fonda il successo elettorale leghista: utilizzando la vecchia cara tecnica del porta a porta, cardine del successo lettorale del PCI ed ora PD nelle regioni “rosse”, ha prodotto lo spostamento di milioni di voti dai partiti tradizionali, di destra e sinistra, verso una formazione politica che certo non brilla per la capacità oratoria dei suoi leader o per la fine elaborazione politica, ma è appunto efficacissima nel cogliere nel segno, interpretando il malcontento nel territorio, cavalcondolo per diventare forza di governo e quindi sedimentandosi sul territorio stesso, prendendo semplicemente il posto delle forze politiche che si riprometteva di cancellare in tutto e per tutto.

Intendiamoci, da parte mia non reputo che il “case study” leghista sia intergralmente da applicarsi alla reltà Sarda, nè che noi siamo paragonabili ai lombardi o veneti, tuttavia ci sono degli aspetti, appunto, che dovrebbero essere presi in considerazione:
- il messaggio “noi vogliamo l’indipendenza” è, come ho già scritto altrove, di per sè poco incisivo. Non perchè non sia di per sè un’ottima cosa, ma perchè la maggioranza dei Sardi la reputa di fatto irrealizzabile, prigioniera dell’atavico sentimento di inferiorità che portava i nostri padri a preferire farci imparare “s’italianu” piuttosto che la lingua dei propri padri.
- IRS ha una eccellente preparazione culturale e politca (i vostri interventi ne sono la prova provata) ma la vedo onestamente in deficit di visibilità nei media, che sono la cassa di risonanza delle idee, buone o cattive che siano.
- purtroppo in Italia lo sanno bene: senza una mobilitazione di capitali le idee non vanno avanti. Il PD si finanzia in una maniera, il PDL direttamente dalle tasche del suo padrone, tutti dalle casse dello stato. Se IRS vuole diventare una forza dapprima presente in un alveo nazionale, quindi aspirare a una realistica possibilità di portare avanti un discorso indipendentista, non può sottrarsi a questo gioco.
- solo un massiccio movimento volontaristico e popolare, nel senso più profondo del termine, può rendere giustizia di un’ideale tanto alto. Ciò nasce da una tensione morale che sinceramente non vedo. Noi Sardi siamo narcotizzati dai media nazionali e regionali che ci trasmettono spesso una reltà dopata, nella quale le nostre esigenze sono semplicemente ignorate in quanto, appunto, non compaiono. Solo singoli casi isolati quali l’Alcoa sono presi in considerazione, perchè appunto nascono da un malessere profondo e sentito nel territorio. Forse non è aupicabile che l’intera Sardegna diventi una grande Portovesme, ma la tensione e la determinazione che hanno portato in piazza quegli operai può essere un elemento da non sottovalutare in un’Isola che ritrova il suo orgoglio la domenica allo stadio o alla festa del santo patrono.

mercoledì 24 marzo 2010

Commissione parlamentare bicamerale: la sovranità degli altri

A seguire il mio commento all'articolo di Frantziuscu Serra visionabile presso http://www.irsonline.net/2010/03/1384/



Gli aspetti fiscali, sia diretti che indiretti, dovrebbero essere uno degli aspetti con i quali IRS si deve differenziare in maniera netta e chiara dai politici che rappresentano la regione Sardegna.

Come regione autonoma, avremmo potuto, da sempre, legiferare in maniera tale da contrapporre alle politiche del continente una serie di contrappesi, sia in termini di incentivazione del consumi di alimenti prodotti dell’Isola nell’Isola stessa (ovvero incentivando il mercato interno) sia di sostegno all’export dei nostri prodotti, il tutto a vantaggio dell’economia Sarda.
Per esempio, analogamente a quanto fa una regione come il Trentino che invade con le sue mele, i salumi ed i vini i mercati di regioni che pure li producono, avremmo potuto fare altrettanto in altre aree. Per esempio, forti di una produzione quantitativamente senza eguali di latte ovino, con una politica costante di incentivazione alla pastorizia sarebbe stato agevole poter competere alla pari con i pecorini che provengono da Toscana o Lazio. Invece, incomprensibilmente, noi produciamo pecorino “romano” (!) rinunciando de facto alla creazione di un nostro marchio.

Per passare poi alle professioni di tipo amministrativo/statale, è noto come la Sicilia abbia legiferato già anni addietro per favorire i propri insegnanti per le cattedre scolastiche interne, salvo poi espotare a piene mani insegnanti in tutte le altre regioni della penisola, invero non risparmiando neppure la Sardegna.

Ciò detto, alla palese incosistenza di una politica economica di protezione e sviluppo del mercato Sardo, si aggiunga un cieco asservimento alle politiche fiscali continentali, che tutti i governi regionali, con forse un minimo sussulto della giunta Soru, hanno semplicemente recepito quanto deciso a Roma.

Ma questa pochezza non scatena, da noi, autentici scioperi come in Lombardia o Veneto. L’aspetto delle entrate fiscali infatti non è recepito pesantemente da una economia asfitica come la nostra, con la maggior parte del reddito spendibile tassato alla fonte. Infatti una regione piena di anziani, statali o parastatali, o semplicemente evasori totali come la nostra cronaca spesso ci presenta, non può essere sensibilizzata da argomenti del genere.

Inoltre il nostro atavico senso dell’onestà (per fortuna, aggiungerei) ci mette nella condizione di non ribellarci quasi mai ad un sistema che preleva a livelli delle democrazie scandinave, ma offre servizi al cittadino spesso da paese del terzo mondo.

Pertanto occorre innanzitutto sensibilizzare il cittadino Sardo su degli aspetti forse noti ma per certo poco sentiti:
- che le nostre tasse siano spese in casa nostra
- che pagare le tasse sia un onere ma anche un onore
- che chi non paga le tasse sia uno che ruba anche a te, non un furbo che va imitato
- che solo separandosi dal continente noi si possa avere una tassazione equa, non inficiata dal colossale debito pubblico continetale

Ciò, a mio avviso, andrebbe portato avanti solo una politica dai toni se vogliamo accesi (e forse persino urlati talvolta) ma fermi, costanti, immediatamente riconoscibili dagli elettori affinchè IRS, che è già conosciuta come componente politica che “vuole l’indipendenza”, sia anche riconosciuta come quella che “vuole che le tasse dei Sardi siano spese in Sardegna”.
Questo concetto, semplice e forse più immediatamente percepibile di un’indipendenza che, non nascondiamocelo, la stragrande maggioranza dei nostro conterranei non reputa realizzabile, potrebbe portare consensi in tempi brevi.

mercoledì 3 marzo 2010

Meridiana fly: un insieme di errori riparabili o il declino inarrestabile della prima compagnia aerea privata italiana?

Il 28 febbraio si è formalizzata la fusione tra Meridiana ed Eurofly.
Inevitabilmente, come in tutte le fuisoni, la somma algebrica di uno più uno non è due. Inoltre, l'applicazione del contratto di una compagnia sull'altra, manco a dirlo il meno vantaggioso per i dipendenti, ha ovviamente creato delle agitazioni che si sarebbero a mio avviso facilmente evitate con una comunicazione puntuale, trasparente ed rigorosa, che desse nell'immediato una serie di punti fermi ai lavoratori, anche svantaggiosi, ma chiari e soprattutto finalizzati ada conservazione dei posti di lavoro in un'ottica di sacrificio finalizzato al rilancio.
Ma non è accaduto nulla di tutto ciò.
La comunicazione ai dipendenti è stata tariva, farraginosa e poco chiara. I dipendenti, in specie i contratti più deboli, sono stati in balìa di azioni dettate più dalla rabbia che non dal raziocinio, dalla pancia più che dal cervello.
Ora, con la doverosa premessa che la maniera con la quale il management sta "non" gestendo la cosa è davvero imbarazzante, non sono affatto d'accordo con questa sollevazione spontanea dettata da motivazioni semplicemente inesistenti.
La miopia di un personale di terra ancorato ad una visione della realtà ferma ai contratti Alitalia (e quale più nefasto esempio non potrebbe essere più chiaro) mostra tutta la sua inqualificabile pochezza e si sposa con la prosopopea di un nucleo di sindacalisti impreparati a tutto salvo che a rilasciare interviste farneticanti, che non tengono in nessun conto la realtà del mercato del trasporto aereo e le peculiarità regionali.
In una realtà industriale piena di fallimenti e cassa integrazione ci si ostina a vedere una realtà che non esiste.
Sono perciò davvero amareggiato. Rischiamo di rendere vano lo sforzo di un azionista che anche stavolta sta mettendo di tasca 40 milioni di euro.
Una autentica vergogna.

sabato 6 febbraio 2010

Itta ci mancat a nosu po fai su proppiu?

We Saw A Vision

In the darkness of despair we saw a vision, We lit the light of hope, And it was not extinguished, In the desert of discouragement we saw a vision, We planted the tree of valour, And it blossomed

In the winter of bondage we saw a vision, We melted the snow of lethargy, And the river of resurrection flowed from it.

We sent our vision aswim like a swan on the river, The vision became a reality, Winter became summer, Bondage became freedom, And this we left to you as your inheritance.

O generation of freedom remember us, The generation of the vision.

An Gairdín Cuimhneacháin, Dublin

Itta ci mancat a nosu po fai su proppiu?

lunedì 1 febbraio 2010

Ryanair chiede ulteriori 5 milioni di euro per Alghero

Già tempo addietro avevo avuto maniera di scrivere sulla curiosa maniera con cui il vettore irlandese faccia cassa qui da noi.
Del resto persino la nostra regione se n'è accorta
http://www.regione.sardegna.it/j/v/25?s=133086&v=2&c=313&t=1
ma è palese che prima o poi dovrà cedere, per esempio prima delle elezioni, alle pressioni di imprenditori che invece di fare impresa chiedono i soldi dei contribuenti per finanziare un business che poi a loro dà una fetta consistente dello stesso.
Sul fatto che la società di gestione dell'aeroporto di Alghero sia l'ennesimo carrozzone statale bravissimo a fare debiti..come dire, non vale neanche la pena di scriverlo: ma perchè invece non si legge
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2008:012:0007:0024:EN:PDF
dove "Ryanair riceve un premio per buone prestazioni" ovvero riceve dai 3 ai 4 milioni di euro per trasportare passeggeri ad Alghero!
Ora, ipotizzato il contributo minimo, gli irlandesi si beccano (trasportando per es 500mila passeggeri) 6 euro a passeggero. Mica male, no?
E questo, per di più, facendo la figura dei benefattori!

Ora, in nome di cosa la regione sardegna dovrebbe dare quei soldi? Per un turismo esteso in più mesi dell'anno? Ma ryanair ha tolto alcune tratte extraeuropee da Alghero.
Ma questo, agli industriali di confindustria, gliel'hanno detto?

lunedì 18 gennaio 2010

La truffa dell’H1N1: più di 23 milioni di dosi inutilizzate

Riprendo in toto l'articolo della brava Sandra Amurri, da Il fatto quotidiano

La truffa dell’H1N1: più di 23 milioni di dosi inutilizzate
Gli spot del governo e la strana prelazione di Sirchia alla Novartis


Il governo
Berlusconi ha buttato via 184 milioni di euro. La Novartis ha incassato un miliardo di euro. Il ministero della Salute ha sottoscritto un contratto con Novartis che definire sbilanciato a favore della multinazionale svizzera è poco, ma questo lo vedremo dopo aver puntato i riflettori su un altro fatto. Girolamo Sirchia – condannato in primo grado a tre anni per aver intascato tangenti, carcere scampato grazie all’indulto, sospeso per cinque anni dai pubblici uffici – nel 2004 quando era ministro della Sanità nel secondo governo Berlusconi, a trattativa privata (cioè senza gara pubblica) ha versato a Novartis 3 milioni di euro per avere diritto alla prelazione sull’eventuale produzione di vaccini in caso di pandemia. Ed è arrivata l’influenza H1N1. "Costruita" la pandemia, il governo Berlusconi ha acquistato il vaccino dalla Novartis con un contratto che per le sue clausole previste è stato tenuto segreto, come "denuncia" la Corte dei Conti. 24 milioni di dosi per un costo di 184 milioni di euro da pagare anticipatamente con l’impegno da parte del governo di accollarsi la responsabilità di eventuali effetti collaterali e del pagamento nel caso di danni a terzi per motivi che non fossero attribuibili a difetti di fabbricazione. A conti fatti i vaccini ritirati e distribuiti alle Asl sono stati pari al valore di 10 milioni contro i 184 pagati. E ne sono stati inoculati solo 865 mila. Il resto? Finiranno al macero visto che scadranno tra poco. Risultato: spreco enorme di soldi pubblici di cui nessuno risponderà. Morale: i cittadini sono stati ingannati tre volte in un colpo solo. La prima quando l’allora viceministro e oggi ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ripeteva che eravamo di fronte a una pandemia mortale di dimensioni inimmaginabili creando tra la popolazione il panico. Il secondo quando presi dall’ansia i cittadini si sono recati nei presidi ospedalieri per essere vaccinati e hanno scoperto che dovevano firmare il consenso informato in quanto il vaccino non aveva superato tutti i test obbligatori per essere immesso in commercio. La terza quando hanno scoperto che lo Stato, cioè loro, aveva acquistato 24 milioni di dosi per 184 milioni di euro e ne aveva utilizzate 865 mila per 10 milioni di euro. Tutt’altro esempio arriva invece dalla Polonia dove il primo ministro, Donald Tusk ha accusato le case farmaceutiche di voler scaricare la responsabilità per eventuali effetti collaterali in quanto il vaccino non era stato sufficientemente testato. E il ministro della Salute, il medico Ewa Kopacz, ha rincarato la dose aggiungendo che se le aziende produttrici non accettavano di assumersi la responsabilità legale per ogni caso di persona danneggiata i vaccini non erano acquistabili. Stessa cosa ha fatto la Finlandia decidendo che chi voleva vaccinarsi poteva farlo a proprie spese e a proprio rischio e pericolo perché lo Stato non avrebbe né finanziato né distribuito quel vaccino. In Italia invece sono stati buttati via 184 milioni di euro nonostante il parere contrario di moltissimi farmacologi – compreso quello del direttore dell’Istituto di ricerca "Mario Negri" di Milano, Garattini, secondo cui la corsa al vaccino si spiega con "la grande pressione delle industrie che ne avrebbero tratto forti guadagni" – che si trattava di un virus "dalla mite virulenza" e acquistare il vaccino non sarebbe stato "un grande affare". Per i cittadini ma non per la Novartis, ovviamente. A questo si aggiunge che il vaccino, non casualmente a esclusione di quello americano, contiene lo squalene che secondo una ricerca condotta alla Tulane Medical School sui veterani della Guerra del Golfo vaccinati per l’antrace con un vaccino contenente l’immuno-coadiuvante MF59 (contenente lo squalene) ha dimostrato che "il 95% che ha sviluppato la Gulf War Syndrome, che ha causato migliaia di morti, aveva anticorpi verso lo squalene". Ma sulla decisione del nostro governo pesa anche l’ombra del conflitto di interessi che è stato solo apparentemente risolto con la nomina di Fazio ministro della Salute, ruolo ricoperto da Maurizio Sacconi la cui moglie Enrica Giorgetti è direttrice generale di Farmindustria. Certo la Novartis che ha prodotto il vaccino non è un’azienda italiana. Ma come si può ignorare che Farmindustria aderisce in ambito internazionale alla Federazione europea (EFPIA) e a quella mondiale (FIIM–IFPMA)? Oltre al fatto che il ministero della Salute, attraverso la AIFA (Agenzia italiana farmaci), stabilisce i prezzi dei farmaci, quali ritirare dal commercio e quali no. Ha il controllo su Farmindustria (che riunisce oltre 200 imprese del farmaco operanti in Italia, nazionali e a capitale estero) rispetto all’avviamento dell’impresa, alla natura degli stabilimenti, ai prodotti, all’immissione in commercio e alla presentazione del prodotto (etichetta, foglio illustrativo e pubblicità) ecc. Conflitto denunciato da Antefatto.it? , ignorato dai media e descritto dalla britannica Nature, una delle più antiche e prestigiose riviste scientifiche nell’articolo “Clean hands, please” (Mani pulite, per favore) in cui si legge: “Per di più le connessioni tra i ministeri della Sanità e del Welfare con il sistema industriale sono sgradevolmente strette: per esempio la moglie del ministro Maurizio Sacconi è direttrice generale di Farmindustria, l’associazione che promuove gli interessi delle aziende farmaceutiche".