domenica 26 settembre 2010

Ops, mi è scappata l’indipendenza

Riprongo l'interessante contributo presente anche presso http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/2010/09/25/ops-mi-e-scappata-lindipendenza/

Sul Corriere della Sera del 25 settembre 2010 ci sono ben tre pagine dedicate alla Sardegna e al “furore” indipendentista di cui la nostra terra sarebbe preda. Inviati del calibro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sulla curiosa evenienza di un consiglio regionale (organo istituzionale dell’ordinamento giuridico italiano) in cui si discetta sul se, come e quanto separarsi dall’Italia medesima.
Il grado di approfondimento è tragicamente basso, questo va subito precisato. Una analisi abbastanza deludente. Si tira in ballo Cossiga, si citano – con evidente sconcerto – i grandi nomi della politica italiana originari della Sardegna, esponendoli come un contrappeso alla pretesa di “separazione” dall’Italia, che risulterebbe dunque un vero paradosso.
L’autorità politica consultata in merito, poi, è nientemeno che Mariotto Segni. Cosa ne sappia Mariotto Segni di indipendentismo e – mi sa – di Sardegna in generale sarebbe un mistero, se non ci desse una risposta egli stesso con le sue dichiarazioni. E la risposta è che non ne sa niente.
Nell’insieme questa ventata di “follia” (come la definisce lo stesso Segni) viene ricondotta alla situazione socio-economica dell’Isola, definita “da brivido”, e alla perdurante arretratezza di noi poveri sardignoli. Anche qui, la parola  viene data a un grande della elaborazione politica nostrana: Felice Floris, leader del Movimento dei Pastori Sardi, una vera autorità. A dire il vero, non risulta che sia indipendentista manco lui; ma sembra – a leggere il CdS – che sia questo il meglio che passa il convento.
Insomma, tanto folclore, molta “Sardegna ultima colonia”, e un sacco di cliché ben degni dello spettacolo offerto dai nostri rappresentanti in consiglio regionale. E l’indipendentismo come risposta emotiva e contingente a una situazione di malessere materiale e di debolezza culturale.
In ogni caso, per mettersi al riparo da qualsiasi possibile equivoco (non sia mai che a qualcuno venga in mente di considerarla una prospettiva plausibile) allo spazio dedicato alla questione “indipendenza” viene subito affiancata una pagina di Manlio Brigaglia, storico tempiese, in cui si racconta di uno dei primi martiri dell’indipendenza. Italiana però. Ossia di quell’Efisio Tola, mazziniano, fucilato  per “sedizione” a 30 anni, nel 1833. Ecco qui serviti tutti i “matti” (sempre Segni) fautori del “separatismo”: i sardi buoni esistono (o sono esistiti) e sono quelli che si sono sacrificati per l’Italia (come da retorica della Brigata Sassari, del PSdAz, dello stesso Renato Soru, ecc. ecc.).
Eppure, alla fin fine, rimane l’impressione che a molti stia sfuggendo di mano l’intera faccenda. Nel mondo della comunicazione di massa non si infrange un silenzio a buon mercato. Legittimare pubblicamente e autorevolmente una parola (e il concetto che le si associa) significa renderla libera di agire sulle coscienze e sull’immaginario collettivo. Gli stessi promotori delle mozioni di cui si è discusso in consiglio regionale – di per sé scadenti e limitate, salvo rari spunti di interesse, gettati lì in modo disordinato e incoerente – non sembrano rendersi conto che questo genere di eventi possono essere dei detonatori per un salto di qualità dei processi in corso. Ossia, non determinarli, ma dare ad essi uno sfogo prima impensato, spesso a dispetto delle reali intenzioni di chi da il via alla cosa.
La storia insegna, a questo proposito. Uno pensa a una bega fiscale, e si ritrova nel bel mezzo della Rivoluzione Americana. I Francesi minacciano di invadere la Sardegna e dalla reazione legittimista a difesa dello status quo ti scoppia tra le mani la Rivoluzione Sarda. Certe inerzie storiche, una volta smosse, hanno una forza che le trascina a prescindere dalla volontà degli uomini, come se ci fosse una energia potenziale che, una volta scatenata, non è facile bloccare fino a che non si è scaricata.
Staremo a vedere quello che succede. Certo è che ci aspettano mesi e anni quanto meno interessanti.

martedì 14 settembre 2010

Il senso di Vespa per le tette

Riporto integralmente l'articolo de Il Fatto Quotidiano di Michela Murgia indicativo di una certa idea, ahimè profondamente vero e radicato.

Se siete donne o uomini non ha importanza, perché il gioco di ruolo che vi propongo si può fare comunque con profitto. Provate a immaginare di essere un giovane scrittore talentuoso e di aver scritto un bel libro. Il vostro valore letterario è tale che vi assegnano addirittura un premio Campiello. Immaginate di mettervi un bellissimo smoking per andarlo a ritirare e di sedervi composto in prima fila insieme alla vostra compagna nella cornice strepitosa del teatro della Fenice, gremita da centinaia di persone eleganti.
Per ultimo immaginate che a quel punto la presentatrice vi chiami a salire sul palco per premiarvi e, mentre voi emozionatissimo fate le scale dando ancora le spalle alla platea, costei vi tenda la mano esclamando giuliva: “Ecco il vincitore, e prego la regia di inquadrargli la strepitosa patta dei calzoni”. In quel momento, dopo quella frase volgare, voi dovrete voltarvi e offrirvi al pubblico con la consapevolezza che quelle centinaia di persone punteranno i loro occhi ormai avidi e curiosi all’altezza del vostro inguine, del tutto dimentiche che il motivo per cui vi trovate su quel palco nulla c’entra con la patta dei vostri calzoni. Se questa scena vi sembra surreale, è perché lo è, ma è esattamente questo che Bruno Vespa ha fatto a Silvia Avallonepremio Campiello.
sabato scorso al Un corpo a disposizione
Sui giornali la sua scivolata poco signorile è stata rubricata con definizioni come “pesante apprezzamento” o “complimento di troppo”, come a dire che “sei bellissima” e “inquadratele il decollétè” sono due frasi che esprimono lo stesso concetto. Non è così, è una menzogna: Vespa non ha fatto un complimento alla bellezza di Silvia, perché invitare un cameraman a inquadrarle la scollatura non è un modo per dire che quello che c’è dentro è apprezzabile: è prima di tutto un modo per dire che è fruibile, che è a disposizione di chiunque voglia guardarselo, sia che si trovi seduto nella poltrona di velluto del teatro della Fenice sia che si trovi sdraiato davanti alla televisione sul salotto di casa sua. Fatta salva la sensibilità di Silvia Avallone, in un caso come questo non è solo la persona che subisce l’esposizione a stabilire se si tratti o meno di una cosa offensiva: l’uso del corpo femminile come pubblico demanio, come pascolo aperto allo sguardo gratuito di chiunque, è un atto offensivo verso tutti e tutte per il contenuto di violenza che si porta dietro.
La violenza non è solo nello schiaffo, è soprattutto nel pensiero di sopraffazione, nell’uso di un potere per disporre dell’altro a proprio gusto, nel zittire la sua lamentela invocando il senso dell’umorismo, nel cercare di far passare per complimento la riduzione di una persona intera al suo corpo o a parte di esso, piegata a decoro televisivamente strumentale. Ho letto anche che quello che ha fatto Vespa sarebbe stato scorretto perché Silvia Avallone è una scrittrice brava e intelligente e non stava bene spostare l’attenzione del pubblico sulla sua avvenenza fisica.
Io non sono sicura che la gravità di quella frase stia solo nello svilimento dell’indubbio valore intellettuale di Silvia. Sono anzi convinta del contrario: quello che Vespa ha fatto sarebbe stato scorretto anche e soprattutto se avesse avuto accanto una donna sciocca e senza nessun altro talento che quello contenuto nella sua scollatura. Sbaglieremmo a legittimare l’idea che una donna intelligente abbia più diritto al rispetto di una donna stupida: daremmo licenza a chiunque di considerarla a sua disposizione o a quella invasiva della telecamera, che simbolicamente è la stessa cosa.

L’importanza delle parole

Impossibile non vedere le analogie tra la naturalezza con cui Vespa ha domandato l’ostensione fisica della Avallone all’occhio della telecamera e le frasi di Silvio Berlusconi a Rosy Bindi, in quel caso giustamente rintuzzate con la negazione di una disponibilità, che non va però intesa nel becero senso di mancanza di compiacenza verso la sedicente galanteria, ma in quello ben più profondo di esercizio del diritto di non essere usate: né per compiacere il maschio dominante, né per decorare un palco, né per fare audience televisiva. Chi rivendica questo diritto non è una beghina né un perbenista, ma una persona che si rifiuta di considerare normale, spiritosa o addirittura lusinghiera la riduzione di un altro a oggetto d’uso a servizio di un potere. Al servizio di questa mentalità Bruno Vespa non è l’oggetto principe della critica, anzi direi che è l’ultimo arrivato, oltre che l’ennesima occasione per fare il mio mestiere: guardare alle parole come cose importanti, come veicoli di senso, pesarle per quello che trasportano e rispettarle o temerle per quello che costruiscono.


Da il fatto quotidiano http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/07/il-senso-di-vespaper-le-tette/57464/