domenica 22 dicembre 2013

Scritti di cagliaritanità

Quest'anno ho deciso di farmi un regalo anni 80/90. Infatti, non senza sforzo, sono riuscito a raccogliere gli scritti di umorismo cagliaritano che avevo prodotto dal 1999 al 2002.
Nasce dal desiderio di voler riavvicinarmi ad una parte di me che sento ancora dentro, quando sento uno dei miei fratelli al telefono, o un vecchio amico. L'accento diviene subito marcato e la lingua dei nostri padri viene fuori naturalmente.  
E allora con pazienza (altervista aveva cancellato il mio primo sito, del 2003) ecco questo blog, che raccoglie questi scritti. Ma non è stato uno sforzo, anzi..fin dalla scuola dell'obbligo mi sono dilettato a scrivere scemenze. Fa parte di me, della mia indole poco seria. Finché sei giovane, va bene, poi bene o male si entra nella categoria degli adulti.
Il titolo deriva dal mio "allumingiu", soprannome, da ragazzo.
Gli scritti sono in italiano e sardo campidanese-cagliaritana (la varianete più diffusa di sardo, con buona pace dei puristi studiosi del Wagner).
- Il gaggio, raffigurazione talvolta ma non sempre iperbolica del cagliaritano “gaggio” appunto. Per gaggio si intende un personaggio di età indefinita, dai 16 ai 90 anni. Eccessivo e sguaiato nei modi, spavaldamente ignorante.
Le interviste improbabili: personaggi noti del mondo dello star system sono in realtà cagliaritani, o non sono morti ma vivono a Cagliari. Esercizio di stile con qualche velleità culturale.  Nascono dal duplice intento di scrivere qualcosa che mi sento di dire, utilizzando metafore. Il messaggio talvolta è palese, talvolta meno.
Ma non temete, il tentativo di parlare di qualcosa di serio fallisce miseramente.
Due cuori e un’apixedda: rivisitazione in salsa burrida delle telenovelas. Gavino e Mauretta faranno del loro meglio per non farvi smettere di ridere.

lunedì 25 novembre 2013

Il nostro 11 settembre.

Quanto è accaduto ad Olbia una settimana fa, proprio in queste ore, e quanto è accaduto successivamente, è per usare una metafora il nostro 11 settembre. E' il ricordo di un evento tragico e straordinario. La mia generazione non ha fatto la guerra, non sapevamo cosa vuol dire devastazione e morte. Almeno fino ad oggi.   
E perciò tutti noi che abbiamo vissuto ad Olbia in questo periodo avremo sempre una storia da raccontare: di come in maniera più o meno fortuita siamo scampati ad un pericolo reale. I più fortunati avranno da raccontare di come ci si è dati da fare dopo per soccorrere i migliaia di concittadini meno fortunati. I meno fortunati racconteranno di come hanno visto la morte in faccia.
E, gli uni e gil altri, ci renderà forse un po' più di Olbia. 


Ma tutti, tutti, non dimenticheremo due cose:

- le bare dei bambini al Geovillage
- gli stivali sporchi di fango

Le bare dei bambini sono l'aspetto più crudele, doloroso ed intimo. La vita spezzata all'improvviso è sempre una lacerazione insopportabile. Quando però si seppelliscono i figli, e la ruota della vita gira troppo al contrario del suo senso naturale, il dolore fa un nodo in gola a tutti, anche i più forti. Accarezzare la testa di miei figli pensando a Morgana ed Enrico sarà una abitudine difficile da perdere. E siccome io non mi reputo più sensibile degli altri, so che molte madri e padri di Olbia della mia generazione faranno come me.
Non basterà il tempo a lavare la loro immagine dai nostri ricordi.
Un antico, saggio e quantomai calzante detto sardo dice che l'acqua ha memoria. Niente di più vero. 


Gli stivali sporchi di fango sono il simbolo della straordinaria solidarietà che per primi ha unito gli olbiesi, e che poi è letteralmente esplosa nelle ore successive. Neppure 48 ore dopo la nostra Isola poteva permettersi di comunicare alla protezione civile delle altre regioni d'Italia: facciamo da soli, grazie.
Il mio popoloso quartiere, con 3 morti e decine di case allagate o danneggiate, un numero enorme di auto fuori uso, strade crollate ed un intero complesso scolastico da demolire, senz'altro è stato tra i più toccati.
Ma la mole degli aiuti che tutta la Sardegna ha convogliato qui nelle ore successive, il mischiarsi dei nostri accenti in uno unico, anche questo mi rimarrà impresso.
Nel momento peggiore abbiamo dato il meglio di noi.
E mentre Soru e Cappellacci si infamavano in diretta televisiva, mentre i saccenti e le cassandre spuntavano dal nulla agitando i loro ditini inquisitori, olbiesi e tempiesi, cagliaritani e sassaresi spalavano lo stesso fango, svuotavano le case allagate, distribuivano cibo e vestiti. Insieme, con il senso di comune appartenenza che noi sappiamo di avere ma che nascondiamo molto bene.

Ancora una volta, siamo stati migliori di chi ci governa.
Ancora una volta, abbiamo avuto la prova che uniti non siamo molto lontani da essere una nazione.

giovedì 24 ottobre 2013

Io li porto

Porto mia figlia al lavoro. Una sensazione strana, ma bella.
Non glielo dico ma sono emozionato per lei. Ma non riesco a non essere banale.
"Mi raccomando Giulié, il sorriso sempre. Gentile, ma come cambi cliente cambi la maniera di approcciarlo." Lei come ovvio non mi ascolta. La testa è altrove, invischiata in quale miriade di pensieri a me sconosciuti. Ma anche se li conoscessi non li capirei, inserendoli nella ampia categoria "michiate" e li cancellerei subito dai miei ricordi.
Apre lo sportello "Ciao Pà". Nulla di quello che le ho detto le è rimasto impresso. Sa già il da farsi, è cosciente di esser là da poco ma di avere quasi completamente imparato il mestiere. Le mie raccomandazioni non le interessano, e non me lo dice solo per non litigare. Vuole la sua macchina, ed ha ragione.

Porto mia figlia (la seconda) a pallavolo. Mi piace quello sport nella versione femminile, mi ricorda la scuola, le risate da far male la pancia.
"Mi raccomando Ari, ascolta l'allenatore, non giocare sempre con le amiche, lo sport è una bella cosa ma ci vuole anche impegno".  Lei non mi ascolta ma finge il solito "Si" con la testa. Chiaramente farà quello che vuole, in palestra. "Ciao Papone, bacio". E via dentro. Di quello che le ho detto, figuriamoci..ci sono le amiche dentro. E vai a ridere. Il bagher? Può aspettare.

Riporto a casa mio figlio da calcio.
Vado un po' prima, e riesco a vedergli sbagliare un rigore e poi segnare un gol. Mi sono ripromesso di non fare commenti, ma come entriamo in auto ed il mio proposito dura 3 secondi netti. "Ma sei una pippa, ma come cavolo tiri?" "Eh oh Pà! Ma poi ho segnato!" La voce stizzita, un po' rauca di un bambino di manco 5 anni mi rimette al mio posto. Lui lo sa che doveva tirare forte e centrale quel rigore che invece è andato sul palo, perché lui si ostina  a calciare (bene) ti interno collo, e talvolta sbaglia.
Poi non ascolta ovviamente la mia predica sui rigori. Ha sete e fame, e non vede l'ora di tornare a casa.


Io sono contento di portarli in giro. Mi sento utile.
E sono tutti miei, per quei pochi minuti.
Anche se non mi ascoltano, anche se la mia voce è il rumore di sottofondo come il televisore quando si pranza, come quel telegiornale per loro incomprensibile ed assurdo.
Io sono felice dei miei monologhi. E non mi importa se per loro sono come un taxi. E' un momento in cui volenti o nolenti gli tocca stare con me.
In cui faccio il papà come mi immagino.
Quello che dà i consigli non richiesti ma che ti porta a destinazione in orario.
Che li porta ai loro impegni, nei loro mondi.
Che sfoga in consigli non richiesti la rabbia per non poterli stare più vicini, per non sapere entrare un po' di più nelle loro vite. Che li vede crescere, vivere e diventare sempre più indipendenti.
Ed è felice per questo.

La loro ruota gira per il verso giusto.
Ma per ora, io li porto.


martedì 27 agosto 2013

Il Signor Seme intervista Bob Marley

Mi va di riproporre un mio vecchio (2001) pezzo del sito di Signor Seme, con qualche piccolo ritocco nella forma. La sostanza, ed il messaggio, sono gli stessi di allora. 

Dopo accurati appostamenti mi trovo nei pressi di Chia per verificare la veridicità di una soffiata: Bob Marley non è morto, ma vive nascosto in un tranquillo residence da diversi anni a godersi la pensione.
Un pomeriggio vedo un attempato signore dalla pelle scura e dreadlocks lunghissimi che fuma, sdraiato nell'amaca del giardino. L'odore è quello inconfondibile della scoppiettante Sensimilia.

Me la tento: "Hey Bob!"
Bob: "Chini cazzu è?"

SignorSeme: "Salve, sono un giornalista.."

B: "E inzà?"
S: "Mi risulta che lei è Robert Nesta Marley, nato a St. Ann, Jamaica, nel 1945"


B: "E chin'è chi na' chi no'?"
S: "Nessuno, solo volevo esserne certo, dato che lei è legalmente morto l'11/5/1981"

B: " Ehh baaa, appu fattu una finta (muove la testa velocemente da destra a sinistra), e mi seu spesau!"
S: "Ma d'altro canto mi può pure prendere in giro"

B: "Sarebbeee a ddiireee?", fa Marley alzandosi dall'amaca.
S: "Che lei potrebbe anche non essere Bob Marley"

B: "E inzà ta cazzu bollisi?"
S: "Il fatto è che mi pare strano che lei abbia fatto finta di morire, e che parli alla perfezione il cagliaritano".
Guardo Bob negli occhi: è uguale a come sarebbe potuto essere oggi. Mi sono preparato delle frasi in slang jamaicano alle quali lui risponde senza problemi. In seguito mi spiega i motivi per i quali fu ferito nel dicembre del '76 a Kingston, dei retroscena sulla composizione di alcune canzoni ed altro ancora. Ha voglia di parlare, ed io di ascoltarlo.
Sono frastornato. Parliamo di cultura rasta, di Marcus Garvey e della venuta del Messia di Jah. E' preparatissimo, e si aiuta con l'inglese per spiegarmi alcuni concetti del rastafarianesimo. Quindi gli chiedo perché ha scelto di venire in Sardegna.

B: "Bos'attrusu no du cumprendeisi, su fattu è chi custu logu è speciali".
S: " Du sciu, ci seu nasciu."

B: "Nooo o frari, no asi cumprendiu unu cazzu, custa terra teni calchi cosa de magicu"
S: " Asi fumau troppu o Bob".

B: "D'appu nau chi no mi cumprendisi. Oh calloneddu, castia chi cummenti logus sa Sardigna no c'i nd'adi mera. Bos'attrus no teneis su prexiu de bivi innoi. Seis prenus de pinniccas, no scieisi rispettai sa natura, su mari e tottas is cosas meravigliosas chi sa natura ari postu innoi. Ma ti castiasa, ma bisi chi tenisi bregungia d'essi sardu? Poitta no chistinas sa limba tua? Poitta arrisi candu bisi unu becciu chi faedda mali s'italianu e benissimu
su sardu? Poitta no cantas is canzonis sardas?"
S: "In casa si parla italiano, dunque io parlo prevalentemente italiano,
con ciò non vuol dire che io mi vergogni".

B: "E secundu tui poitta babbu tuu e mamma tua chistionanta italianu? Ti du nau deu: tenianta bregugia de chistionai sardu poitta su sardu fiara sa limba de is poerus. Chini podiara studiai deppiara chistionai s'italianu po si fai cumprendi de is maistrusu. Custa è sa biridadi; is Sardus si abbregungianta d'essi sardus".
S: "Visto che sei così informato, perché non guardi in casa tua: anche i Giamaicani parlano una lingua non loro, l'inglese. Non sono, non siete anche voi succubi di una cultura diversa dalla vostra?"

B: "Tantu po commenzai is Giamaicanus funti fillus de is ischiavus chi funti pigaus in Africa in su tempus d'inzandus. Issus chistionantas limbas diferentis poitta mera bortas benianta de logus chi fianta attesus, e po si fai cumprendi no podianta chistionai chi sa limba de is meris, chi fiara s'inglesu. Is Sardus no funti pigaus de un attru logu e portausu in Sardigna. Issus in Sardigna ci fianta giai nascius. A s'arrevesciu deppiada essi chini beniada in Sardigna a imparai faeddai su Sardu."
S: "Ma non c'è un solo sardo, ci sono diverse varianti molto diverse tra loro..."

B: "E no ci fianta mera italianus, mera inglesus, mera franzesus, e immoi si chistionara scetti unu italianu, o inglesu o franzesu? Sa limba natzionali, candu sa natzioni nasciri, no è mai sa propia in d'ognia logu."
S: "Ma noi facciamo già parte di una nazione Bob, anche se tu te lo dimentichi in continuazione; noi siamo Italiani, o almeno così è fino a prova contraria."

B: "Nosattrus seus Giamaicanus, e tenemus limba, tradizionis e su prexiu d'essi Giamaicanus. Poitta is Sardus no podianta fai su propiu?"
S: "Poitta si ci fiara stessiu unu addì aundi cussu fiara possibili, cussu addì est passau." Parlo anche io in sardo. In fin dei conti ho più diritto di lui di farlo.

B: "Anda beni, su passau no torra. Ma cummenti si abbregungeis de chistionai sardu candu seis scetti intr'e sardus?"
S: "Questo non è vero; se vai nel nuorese o in Gallura capita spesso di sentire ragazzi che parlano la loro lingua correntemente.

B: "Podi essi, ma tantu si chistionais sardu o italianu, su problema aparra sempri: bosattrus no cumprendeis sa fortuna manna d'essi nascius innoi, tottas is cosas chi podeis fai cun sa natura, su soli e sa bellesa de custa terra. Innoi c'esti sempri su bentu. Poitta no faeisi cummenti in Olanda, e po fai elettricidadi poneis mulinus. Itta nara chi fiara mellus de cussa merda chi teneis in Portovesme o Portotorres? Seis boccendi sa terra e su mari...po nudda. E su turismu? Candu calanta is continentalis cun is camper si portanta s'aqua puru. E lassanta scetti sa merda. E 'ta cazzu è custu, «svilluppo»?"

La logica è stringente. Ed in fin dei conti mi rendo conto che la vediamo nella stessa maniera.

Passo il resto della serata a conversare con Bob; finito di parlare di politica, alla fine si canta qualcosa insieme. Non mi importa sapere perché e percome lui è venuto qua; il fatto è che per lui la Sardegna e come la Giamaica.
E quando ci salutiamo, non gli dico che verrò a trovarlo ancora; mi basta che resti qui.

martedì 30 luglio 2013

Dare il sangue

La cosa, detta così, pare un sacrificio abnorme, una specie di condanna.
L'iconografia cattolica del Cristo che dà il suo sangue per noi,  l'occulto che si palesa nei riti satanici, ed ultimamente questo revival in chiave fighetta dei vampiri. Davvero il sangue appare materia a metà strada tra il macabro e l'esoterico.
Insomma parlare di sangue tutto è meno ciò che è davvero: tessuto connettivo allo stato liquido.
Ma non volevo scrivere di questo in realtà.

Volevo scrivere che poche cose mi fanno stare bene con me stesso come dare il sangue.

Ho cominciato da ragazzo, 18 anni, per non andare a scuola, come tanti. Paura no, la balentìa di non farsi vedere timoroso dalle compagne di classe, quel succo di frutta alla pesca, sono davvero dei bei ricordi in una età nella quale mi sentivo spesso insicuro.


Poi ho continuato con costanza, dapprima due volte all'anno, poi passati i 40 lo do quasi sempre a luglio. Oramai sono 27 anni. Una vita.

Fa bene, dicono. E' un gesto di generosità..si certo.
Eppure tutto sommato io quando do il sangue lo faccio per me.
Perché mi rimette in pace con quella parte di me che mi vede egoista, chiuso nei miei piccoli interessi, il lavoro, i figli, le solite cose.
Mi fa sentire, quei 10 minuti che dura la donazione, parte di qualcosa di più grande. Che si chiami comunità, stato, non mi interessa. Mi piace pensare che non mi importa affatto a chi andrà la mia sacca. Bambino o vecchio, santo o disgraziato.
Il mio 0+ va bene per tutti.

E così passano rapidi quei 10 minuti, con le dottoresse del centro trasfusionale che mi chiamano per nome, e dentro la "famina" di quel ragazzetto perennemente affamato che ero che pregusta il succo alla pesca. E così mi rimetto in pari, almeno quel giorno, con la sorte che mi ha dato tanto.

Forse.




martedì 25 giugno 2013

Zona Franca, l'ennesimo miraggio?

Non lo so, a me pare una michiata.
Non la cosa in sé, per carità quella va benissimo. Pagare meno tasse, sviluppare il commercio, l'impresa e tutto il resto.
Ma è che poi vai a vederli, questi che chiedono la zona franca, ed un po' il dubbio ti viene.


Guardo il sito: ci manca solo che mi promettano che divento Brad Pitt e siamo a posto. Vedo Cappellacci alla televisione, ed il frago di cazzata gigante appare già insopportabile.

Certo, poi vedo Silvio Lai a Videolina che pretende di spiegarci come si sta al mondo sparando cifre che manco il pescatore più cazzeri del mercato di San Benedetto, e magari rivaluto Cappelleddu...

La verità è che tutto quanto ha a che fare con la Sardegna ha un vulnus di origine: se è una buona cosa la distruggiamo da noi, se è inutile la portiamo avanti come una bandiera, se è dannosa sappiamo già che viene da fuori e che sarà fatta volenti o nolenti.

E' la maledizione dell'invidioso, che ci portiamo appresso come una tara genetica, oppure si potrebbe fare davvero (o solo in parte)?

Inserisco a questo punto molto volentieri l'articolo che ho trovato maggiormente aderente al mio modesto ed estremamente ignorante modo di vedere le cose, quello di Andrea Nonne, visibile integralmente in questo link

In sostanza:
- è davvero fattibile una zona franca che possa rispecchiare quanto già avviene in Europa con Madeira o le Canarie dove "grazie ad una specifica disciplina,  ha fatto si che i vantaggi fiscali si indirizzassero realmente verso le esigenze economiche del territorio evitando così il rischio  di creare paradisi fiscali"
la a complessiva defiscalizzazione dei trasporti che Nonne valorizza in 5/600 mln di euro produce risultati durevoli e dimostrabili.
- la necessità di altri 200 mln di euro con i quali si potrebbe dimezzare l’ires (escludendo dalle esenzioni le imprese ad elevato impatto ambientale per la gioia della famiglia Moratti) attirando così investimenti di imprese industriali strutturate e profittevoli. 


Insomma tutto sarebbe assolutamente ma fattibile ma purtroppo temo non se ne farà nulla. Le motivazioni sono le solite:

1- I nostri politici locali sono il peggio della più imbarazzante classe politica europea.
2- I movimenti indipendentisti non muovono un decimo di quello che è riuscito a fare Grillo in 3 giorni di turnée prima delle elezioni politiche, segno che la bandiera dei 4 mori va bene per essere portata ai concerti o appesa negli uffici pubblici
3- Il nostro atavico amore per la faida ci terrà abilmente lontani da soluzioni condivisibili.
4- Non meno la mancanza di una personalità sarda davvero influente in ambito nazionale o meglio europeo si sente eccome.
Sebbene a noi l'uomo forte piaccia (anche se meno che agli italici) poi non resistiamo a  tirargli una fucilata dal muretto a secco.




domenica 19 maggio 2013

È giocare che è tutto.

Quest'anno ho scritto poco di calcio. 

Alla mia squadra è successo davvero di tutto. Però malgrado tutto siamo ancora qua, senza stadio, con pochi soldi, coi ragazzini del 94 e 95 della primavera,con gli stranieri presi in squadre mai sentite, con gente che stava in serie B come Sau. 

Eppure ce l'abbiamo fatta. E alla grande. Sono le cose come questa che mi fanno innamorare ogni anno del calcio.

Perché non è vero che vincere è tutto come è infatti scritto nel retro della maglia della squadra che pur di vincere tutto è stata mandata in B. 

È giocare che è tutto. 
E allora viva il gioco.
E viva il cagliari calcio.



giovedì 18 aprile 2013

Peppino Fiori, tributo alla modestia, all'intelligenza ed alla misura

Forse vedendo stasera l'abbraccio tra Alfano e Bersani a Montecitorio che mi è tornato in mente che in questi giorni, 10 anni fa a ieri, moriva Peppino Fiori, senz'altro l'intellettuale sardo che più ha formato il mio pensiero politico, ammesso che io possa dire di averne uno*

Di Fiori ho quasi tutte le pubblicazioni (mi manca la biografia di Enrico Berlinguer, che credo mi regalerò quest'anno), e che come nel caso della vita di Antonio Gramsci credo di aver letto 3 volte. Insomma sono un suo fan, anche se credo che questo termine non gli piacerebbe.


Definirlo un Plutarco dei nostri tempi sarebbe riduttivo. 

Peppino Fiori è stato un giornalista di prim'ordine, direttore di Paese Sera e firma di punta di una Rai della metà degli anni 70 poco abituata ad uno stile scarno, incentrato sulla notizia, oggi diremmo alla BBC dato che non abbiamo memoria che la televisione nazionale italiana non è stata solo Berlusconi.
E' stato un politico di sinistra, eletto tra i socialisti che abbandonò non appena Craxi divenne segretario di quel partito, ma prontamente rieletto alle elezioni successive come indipendente nel Pci. Era perciò anche un uomo di fatti, oltre che di penna. E' stato infatti un uomo verticale, in cui la morale e la politica camminano di pari passo (in lontananza in una altra stanza sento alla Tv la voce della Santanchè, un incubo).

E' stato, soprattutto, scrittore. Da appassionato di storia, sono stato fulminato dal primo libro che comprai scritto da lui, era la vita di Michele Schirru, l'anarchico di Padria che tentò di assassinare Mussolini. L'ordine meticoloso della narrazione, l'ossessione per le fonti di prima mano, un uso della lingua misurato, chiarissimo, impeccabile. Analista lucidissimo, scriveva nel 1995 "Il venditore, Storia di Silvio Berlusconi e della Fininvest" di illuminante preveggenza.

Ma i libri i Peppino Fiori di cui sono innamorato riguardano i Grandi Sardi del secolo scorso: le biografie di Emilio Lussu e Antonio Gramsci. Del primo, oltre dello straordinario uomo d'azione fa trasparire anche l'irrequietudine intellettuale, del secondo il lato meno conosciuto di politico non ligio alla disciplina come lo voleva la tradizione togliattiana.
Ma non è stato solo biografo, infatti consiglierei davvero a chi volesse comprendere un po' di più della Sardegna una lettura di Sonetàula. In questo breve romanzo (diventato film di Salvatore Mereu) è racchiusa una storia di secoli di codice barbaricino,  la orgogliosa prigione di un popolo.

E' stato per me, Peppino Fiori, l'esempio di come si possa fare bene e con coscienza cose diverse fra loro, con modestia, intelligenza e  rigore.
Doti oggi sempre più rare.








*Al di là della sua appartenenza ad un partito politico nazionale italiano, cosa che io evidentemente non condivido.

domenica 24 marzo 2013

Il collasso economico e un crescente disagio sociale hanno messo in crisi il progetto neoliberista europeo.

Pubblico molto volentieri un breve articolo presente sul siti di Internazionale.
E' visibile in maniera integrale presso http://www.internazionale.it/atlante/crisi-economica/ corredato di grafici e bibliografia


Cominciata negli Stati Uniti nell’estate del 2007, la crisi dei subprime si è progressivamente estesa al mondo intero. All’inizio era una crisi finanziaria, poi è diventata economica, sociale e politica. Ed è soprattutto sul continente europeo che ha prodotto i suoi effetti più brutali: crescita rallentata, esplosione della disoccupazione, sviluppo esponenziale del lavoro precario e interinale, aumento della povertà.
A questa crisi del neoliberismo si è cercato di rispondere con le ricette neo­liberiste dell’austerità. Sembra, infatti, che il debito sia l’unica preoccupazione delle classi dirigenti europee: per ridurlo, hanno promosso pesanti tagli agli investimenti, la contrazione dei salari, delle pensioni e di ogni forma di servizi sociali e un significativo inasprimento fiscale per i settori più svantaggiati della popolazione.
Ma la crisi si è accentuata e intere economie nazionali sono al collasso, mentre il disagio sociale aumenta e rischia di trasformarsi presto in un netto rifiuto popolare del progetto europeista.







mercoledì 27 febbraio 2013

PER IL PD È L’ORA DELL’IRRESPONSABILITÀ


Con molto piacere posto sul mio blog un articolo che sento particolarmente vicino al mio modo di vedere le cose in relazione al travaglio del Partito Democratico italiano. L'articolo è di Stefano Cappellini.
La url originaria è http://www.leftwing.it/2013/02/27/per-il-pd-e-lora-dellirresponsabilita/

“La serietà al governo”. Così era scritto nel 2006 sui manifesti della campagna di Romano Prodi, capo di una coalizione che peraltro di serio aveva ben poco da offrire, composta com’era da una miscela che comprendeva i più vieti demagoghi (Antonio Di Pietro, i Verdi di Pecoraro Scanio) e i più spregiudicati trasformisti (Clemente Mastella, Lamberto Dini, eccetera). Da quella campagna prodiana, funestata dallo scomposto presenzialismo di Fausto Bertinotti, uscì una massa di voti importante (circa 19 milioni), vetta massima di consenso al centrosinistra, che si tradusse però in una vittoria mutilatissima. Il richiamo di Prodi alla serietà ebbe una sua forza agli occhi di una nazione che usciva stordita dal carnevale berlusconiano della legislatura 2001-2006, ma si rivelò una proposta politica troppo esigua per impedire al Cavaliere di guadagnare un pareggio nelle urne.


Paradossalmente Pier Luigi Bersani, cioè il leader che più (e bene) ha lavorato per costruire una coalizione plurale che non replicasse però i vizi della fu Unione, ha scelto di proporre al Paese la medesima parola d’ordine di sette anni prima: la serietà. “Non faremo annunci”. “Niente promesse mirabolanti”. “Non inseguiamo Berlusconi”. Un piccolo florilegio di dichiarazioni di Bersani in campagna elettorale. Tutto molto responsabile. Tutto serissimo. Solo che stavolta, a differenza del 2006, il Paese non usciva da un quinquiennio carnevalesco, bensì da un anno e mezzo di durissima quaresima. E la serietà è suonata a molti elettori come un programma mesto e punitivo. A tanti, addirittura, è parsa un sinonimo furbo di rinnovata austerità, sulla falsariga di un esecutivo Monti che, dopo una partenza promettente, si è arenato in un lungo stallo, tra le velleità politiche del presidente del Consiglio e le inoperose gaffe di qualche ministro. (Bisognerebbe a questo punto riavvolgere il nastro degli ultimi sedici mesi di eventi, a caccia degli errori che il Pd può aver commesso dal giorno delle dimissioni di Berlusconi a quelle di Mario Monti, il cui insediamento a Palazzo Chigi è stata operazione costruita in buona parte dai vertici democratici, ma il flashback ci porterebbe lontani dal ragionamento che si vuole fare qui. Magari ci torneremo in un’altra occasione).

Insomma, Bersani era senz’altro il candidato premier più serio tra quelli in lizza. Ma la risposta della maggioranza degli elettori è stato un sonoro: e allora? Non ci basta. Anzi, visto quanto accaduto con Monti, la serietà ci allontana, ci deprime, quasi ci spaventa. Il vizio capitale della classe dirigente del centrosinistra targata Seconda Repubblica, ovvero vantare la qualità di bravi amministratori a scapito dei contenuti (in fondo si trattava di un maldestro tentativo di adeguarsi alla demenziale parola d’ordine della società civile post Tangentopoli: votare le persone prima che i partiti), ha fatto capolino anche nella campagna di Bersani. Dopo Monti, la serietà doveva essere una precondizione del programma di rottura, non l’asse portante del messaggio democratico.


Bersani, che non avrà le stimmate del leader carismatico, ma è uomo intelligente oltre che preparato, ha riconosciuto il difetto nell’adeguare il messaggio del Pd a questa fase di rivoluzione. Troppo debole, e timida, la proposta di cambiamento offerta al Paese. E la lapide alla linea della serietà l’ha messa Bersani stesso, quando nella prima conferenza stampa post-voto ha spiegato che il piano d’azione che intende proporre dopo aver ricevuto l’incarico di formare un governo conterrà proposte più radicali di quelle comprese nel programma ufficiale. Un riconoscimento esplicito dell’errore strategico commesso in campagna elettorale, ben più importante dell’ovvia ammissione della mancata vittoria.
Il riposizionamento di Bersani fa giustizia di un primo luogo comune che sta impestando i commenti post-elettorali (sul secondo, Matteo Renzi, arriveremo tra poco), quello secondo cui non c’è niente da fare, l’Italia è un paese di destra (variante: è un paese di stupidi, ma è la stessa solfa). Giustamente, Bersani dice no, queste elezioni si potevano vincere, e il Pd non le ha vinte perché non ne è stato politicamente capace, anziché per un insormontabile ostacolo che gli ha frapposto il Paese (casomai, evitabile era l’alibi del Porcellum, sistema infame, ma che nel 2008 non ha impedito a Berlusconi di avere numeri enormi per governare). Dove è questo impenetrabile blocco di destra? Nel lombardo-veneto? Bene. Però il Pd le elezioni le ha perse ancora una volta al sud, non tra le partite Iva di Belluno ma tra i disoccupati del Mezzogiorno che hanno votato in blocco Grillo, in Puglia, dove governa Vendola e Italia bene comune è andata sotto di dieci punti, in Campania dove l’Ulivo ha governato per vent’anni, nella Sicilia che ha eletto Crocetta e dove il centrosinistra è finito al terzo posto come coalizione. Berlusconi si è limitato a mantenere il suo nocciolo duro di consensi, che conserverebbe a dispetto di qualsiasi evento o scandalo. Ma c’era un enorme massa libera di consensi a caccia di una proposta di alternativa radicale. Una massa intercettata in blocco dal Movimento 5 Stelle che, nonostante i toni sguaiati e subperonisti di Grillo, non è Forza Italia, non ha un programma di destra e non rappresenta certo un blocco sociale conservatore.

Dicevamo del secondo luogo comune: ci fosse stato in campo Renzi, il Pd avrebbe vinto in carrozza. Si tratta di un’affermazione apodittica che non avrà mai controprova. Certo, è evidente che, sul terreno del rinnovamento, Renzi avrebbe potuto mettere in campo una forza che Bersani non possedeva, né possiederà mai. Renzi avrebbe sicuramente conteso e sottratto voti sia a Berlusconi che a Grillo. Ma sospettiamo che l’avventura del sindaco di Firenze, sostenitore di una linea di assoluta autosufficienza del Pd, non sarebbe stata la passeggiata di salute che molti evocano. E comunque delle due l’una: o il Pd ha perso perché non ha saputo farsi intereprete di una proposta di rottura sul modello radicale di Grillo, e allora non si vede come avrebbe potuto incarnarla Renzi sulla linea Ichino-Morando, oppure ha perso perché non ha schierato Renzi con la sua agenda Monti in salsa democrat, e allora bisogna dimostrare che sarebbe bastato il semplice tocco di Renzi a rendere appetibile una ricetta che dalle urne è uscita più che bocciata: annichilita.


Dunque ora cosa deve fare il Pd? Innanzitutto, per quanto detto finora, è bene che sia stata scartata ogni ipotesi di governissimo, larghe intese, grandi coalizioni. Sarebbero il preludio di una definitiva, inappellabile sconfitta. La linea disegnata da Bersani è chiara: formare un governo che punti a realizzare un numero definito di riforme votabili dai Cinquestelle. Detto chiaro: un esecutivo che, forte della maggioranza alla Camera, si guadagni l’appoggio esterno dei grillini al Senato. Si può fare? Difficile, non impossibile.
Non c’è motivo di cambiare giudizio su quanto di negativo Grillo ha inoculato nel già provato corpo della democrazia italiana, con la sua virulenta carica di qualunquismo. Cercare una interlocuzione con lui significa esporsi a rischi alti: potrebbe far saltare il tavolo in qualunque momento, e in malo modo. Ma non si vede perché non sfruttare l’esito dirompente delle elezioni per un piano di riforme radicali sulle istituzioni, su costi e forme della politica, un grande piano per il lavoro e contro la precarietà, giustizia, conflitto di interessi, un piano per andare in Europa con un progetto di riforma della governance della crisi e di cambio di rotta sul rigorismo teutonico. Quale elettore del Pd potrebbe risentirsi per questa agenda? E quale parlamentare (o elettore) grillino potrebbe sentire di tradire il mandato colloborando all’approvazione di questo piano? Tra i ministri pochi volti noti, nessuna cariatide e qualche azzardo calcolato.

Può non funzionare: in quel caso, si tornerà inevitabilmente al voto. Ma almeno il Pd ci arriverà dopo una mossa politica vera. E non dopo un trito balletto bipartisan o sull’onda (corta, molto corta) dell’ennesima, serissima, ormai insostenibile manfrina di responsabilità nazionale.

domenica 20 gennaio 2013

Sognatore, imprenditore, amico

Questo non è il Panegirico di Shah Karīm al-Husaynī, meglio noto come Aga Khan. Sono solo considerazioni su fatti avvenuti. Mie, personali, opinabili.
Ed ovviamente, essendo mie, esattissime.


"Il sognatore è colui che vede l'alba assai prima degli altri
(Oscar Wilde)

Karīm quando ha visto la Sardegna, 50 anni fa, ha visto l'alba di quello che sarebbe poi diventato il miglior brand che la nostra Isola potesse portare avanti. Un turismo di élite,  con costruzioni raffinate ed estremamente integrate nell'ambiente, costruite da architetti di respiro internazionale ed eppure anch'essi stregati dal luogo. Prego il lettore di non pensare alla Costa Smeralda come quella dei film di Gerry Calà o Billionaire.
Vorrei ricordare che la Costa Smeralda, quella vera, si riassume a mio avviso in un edificio: la chiesa di Stella Maris, che domina da una parte il porto e dall'altra Monte Moro. Un Principe Ismailita costruisce una chiesetta in punto dove un palazzinaro romano o milanese non avrebbe esitato un attimo a piazzare un casermone di 20 piani.
Ed a chi dice che questa non è Sardegna rispondo che questa è un altra Sardegna, forse meno sarda e più internazionale. Ma se sentite gli accenti di chi ci lavora scoprirete oltre al cantilenato arzachenese un barbaricino con le sue consonanti chiuse, il cagliaritano col suo accento persistente anche se parla inglese. Perchè qui e solo qui i sardi non sono di Ozieri, di Iglesias, di Villagrande. Sono Sardi e basta. Quello che sarebbe una nazione. Curioso che poi si parli di colonialismo industriale..


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Quando pensi all'imprenditore pensi ad una persona che gestisce un'attività economica d'impresa assumendosi il cosiddetto rischio d'impresa. E non si può certo dire che a Karim sia mancato lo spirito imprenditoriale. 
Karīm ha avuto una intuizione e l'ha portata avanti coerentemente, rischiando del proprio, che certo è tanto ma è suo, in fondo. Ha costruito quello che sarebbe divenuto il centro del più importante distretto turistico del sud Italia, e la seconda compagnia aerea italiana. Ha avuto sicuramente il suo profitto, come è giusto che sia per l'imprenditore. Ma è stato costantemente osteggiato da una classe politica regionale miope se non talvolta in malafede, che ha preferito impianti industriali finanziati coi soldi pubblici (i nostri, ricordo ai più distratti) e che essendo basati sul nulla hanno riempito la nostra terra di scorie e tante case di cassintegrati cronici inesorabilmente destinati alla disoccupazione o all'emigrazione.
Karīm è stato trattato come un "invasore" quando chiedeva di espandere le attività senza chiedere una lira dallo stato, di costruire con lo stile che ci è stato copiato in tutto il bacino del mediterraneo, di assumere l'equivalente di 3 Saras.

Essendo abituato a vivere fuori dall'italia e dunque ad ad avere a che fare con persone serie, se n'è andato, mantenendo la sua casa e due dei sue asset, forse i meno rilevanti, ma quelli che si reggeva in piedi da soli senza dover stare dietro al politico di turno.



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Quando tu dici amici che in
tendi 

agire felici in comunione di intenti esser presenti in tutti i momenti nei quali da solo proprio non te la senti farsi a metà per valer più del doppio Avere un fedele senza esserne l'oppio Mettersi a nudo mostrandosi stroppio Esser lo scudo o esser lo scoppio
(Francesco Di Gesù, meglio noto come Frankie Hi NRG)
L'amico è persona su cui ci si può fare affidamento. E non si può certo dire che Karīm qui non si sia comportato da amico, e  ben più di una volta.
Sono sufficientemente laico per sapere che se anche stavolta ha messo sul piatto altri 100 milioni di euro ha un piano, che forse significa la fine definitiva della sua storia qui in Gallura. Forse vede in questo ennesimo esborso economico la pietra tombale del suo sogno, del suo essere imprenditore qui.

Forse è anche la fine del suo rapporto con una terra in cui è stato un sognatore, un imprenditore, un amico.