domenica 16 dicembre 2007

L'attualità dell'Etica Nicomachea di Aristotele

Circa la giustizia e l’ingiustizia dobbiamo considerare quali azioni esse riguardino, che genere di medietà è la giustizia, e quali sono gli estremi tra cui il giusto è medio. La nostra indagine deve seguire lo stesso metodo delle parti precedenti.
Noi, pertanto, vediamo che tutti intendono con "giustizia" la medesima disposizione, quella per cui gli uomini sono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono giustamente e vogliono le cose giuste; nel medesimo modo stanno le cose per quanto riguarda l’ingiustizia, disposizione per la quale gli uomini agiscono ingiustamente e vogliono le cose ingiuste.
Diamo anche noi per concessa questa prima definizione sommaria. In effetti, le cose non stanno allo stesso modo nel caso delle scienze e delle potenze e nel caso delle disposizioni. Si ritiene infatti che una potenza ed una scienza siano la medesima per gli oggetti contrari mentre la disposizione che è contraria ad un’altra non produce i risultati contrari, come, per esempio, partendo dalla salute non si compiono azioni ad essa contrarie, ma solo quelle salutari: diciamo, infatti, camminare "in modo sano" quando uno cammina come camminerebbe un uomo sano. Posto questo, spesso la disposizione contraria si riconosce dalla sua contraria, ma spesso le disposizioni si riconoscono da ciò cui esse ineriscono.
Se infatti è manifesta la buona costituzione fisica, anche la cattiva costituzione diventa manifesta, e dalle condizioni di buona costituzione fisica si inferisce la buona costituzione stessa, e da questa quelle. Se, infatti, la buona costituzione fisica consiste nella compattezza della carne, è necessario anche che la cattiva costituzione consista nella flaccidità della carne e che la condizione della buona costituzione sia quella che può produrre la compattezza nella carne. Ne segue che, per lo più, se i termini che indicano una disposizione e ciò cui essa inerisce sono usati con più significati, anche i loro contrari si usano con più significati; per esempio: se il termine "giusto" ha più significati, anche il termine "ingiusto" avrà più significati.
Sembra che i termini "giustizia" e "ingiustizia" abbiano più significati, ma che per l’affinità di questi significati la loro equivocità rimanga nascosta e non succeda come nel caso dei significati lontani tra loro che sono più visibili: per esempio (qui infatti la differenza è grande secondo l’aspetto esteriore) si chiama chiave, in modo equivoco, sia la clavicola degli animali, sia lo strumento con cui si chiudono le porte. Cerchiamo, dunque, di afferrare quanti significati ha il termine "uomo ingiusto". Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza.
Dunque, la nozione di "giusto" sarà quella di "ciò che è conforme alla legge" e "ciò che rispetta l’uguaglianza", [quella di "ingiusto" sarà di "ciò che è contro la legge" e di "ciò che non rispetta l’uguaglianza". Poiché l’ingiusto cerca di avere più degli altri, ciò avverrà in relazione con i beni: non con tutti, ma con quelli soggetti a buona e a cattiva fortuna, i quali sono sempre dei beni in sé e per sé, ma non sempre per un determinato individuo. Eppure sono questi i beni che gli uomini chiedono nelle loro preghiere e perseguono con le loro azioni: ma non si deve fare così, bensì gli uomini dovrebbero pregare che i beni in sé e per sé siano beni anche per loro, e poi scegliere quelli che sono beni per loro.
Tuttavia l’uomo ingiusto non sceglie sempre il più, ma anche il meno, nel caso delle cose che sono di per sé cattive. Ma poiché si ritiene che anche il male minore sia in qualche modo un bene, e che è del bene che si vuole avere di più degli altri, è per questo che l’ingiusto viene ritenuto uno che cerca di avere di più degli altri. È, poi, uno che non rispetta l’uguaglianza: questo termine abbraccia i due casi insieme ed è comune ad entrambi.
Poiché, come abbiamo detto, chi non rispetta la legge è ingiusto ed è giusto chi, invece, la rispetta, è chiaro che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto: infatti, ciò che è definito dalla legislazione è cosa conforme alla legge, e ciascuna delle cose così definite noi diciamo che è giusta. Ora, le leggi, in tutto ciò che prescrivono, mirano o alla comune utilità di tutti i cittadini o a quella dei migliori o di quelli che dominano per virtù, o in qualche altro modo del genere. Sicché, in uno dei sensi in cui usiamo il termine, chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti.
Ma la legge comanda di compiere anche le opere dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprio posto di combattimento, di non fuggire e di non gettare le armi, e quelle dell’uomo temperante, per esempio, di non commettere adulterio né violenza carnale, e quelle dell’uomo bonario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e così via analogamente anche per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre, e ciò rettamente se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta in fretta. Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro. Ed è per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né la stella del mattino siano altrettanto degne di ammirazione. E col proverbio diciamo: "Nella giustizia è compresa ogni virtù".
Ed è virtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza. Inoltre, è perfetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capaci di esercitarla nei rapporti con gli altri.
E per questo si pensa che abbia ragione il detto di Biante "il potere rivelerà l’uomo": chi esercita il potere, infatti, è già per ciò stesso in rapporto e in comunità con gli altri. Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche "bene degli altri", perché è diretta agli altri. Essa, infatti, fa ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è membro della comunità.
Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria malvagità sia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che esercita la virtù verso se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa, infatti, è un’impresa difficile. La virtù così determinata non è quindi una parte della virtù, ma la virtù nella sua completezza, e l’ingiustizia che le si contrappone non è una parte del vizio, ma il vizio nella sua completezza.
In che cosa, poi, differiscano la virtù e la giustizia così determinate è chiaro da quello che si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro essenza non è la stessa, bensì, in quanto è in relazione ad altro è giustizia, in quanto è una determinata disposizione in senso assoluto è virtù.

domenica 9 dicembre 2007

La guerra di successione

La crisi c'è, di nervi. Ho controllato la data di na­scita di Silvio Berlusconi: 29 settembre 1936. Ha 71 anni. L'aspettativa di vita di un maschio italiano di oggi supera i 78 anni (gli 84 per una donna, ammesso che riesca a scampare ai maschi, italiani e no). Benché Berlusconi pos­sieda più o meno 30 mila mi­liardi di vecchie lire, e vivere sotto una cifra tale non debba essere facile, bisogna imma­ginare, a parte gli auguri mi­gliori, che disponga almeno di una decina d'anni di vita e di attività.

Se invece vivesse, dicia­mo, come Mao Ze-dong, 83 anni pieni, gliene resterebbero al­tri 12. Dico Mao non a caso, co­me vedremo. Questi strampa­lati calcoli - che il signor B. perdonerà: lui è superstizioso, portano bene — mettono a fuoco la questione. Il centrode­stra ha, da alcuni anni, e più decisamente dopo la sconfitta nelle politiche scorse, un'uni­ca ragion d'essere: il dopo-Berlusconi, e più esattamente la guerra di successione a Ber­lusconi. Berlusconi, senza il quale quel centrodestra non sarebbe esistito (e purtroppo nemmeno una buona parte del centrosinistra) è oggi, con i suoi tredici anni di carriera ti­rata, un navigato uomo politi­co. Ma prova ancora, e magari riesce, a mostrarsi come un outsider, un prestato alla politica, uno di passaggio. Ha il suo tornaconto: una tasca per la politica, una per l'antipolitica. Perfino tutti quei soldi, po­veretto, ai quali nessuno rie­sce neanche per un momento a non pensare guardandolo, funzionano come un segno di estraneità: che cosa volete che gliene importi a lui della pen­sione da parlamentare, che per tanti bravi padri di fami­glia è un cosi fatale traguardo. Nel feudalesimo italiano, il centrosinistra soccombe ai valvassini, il centrodestra ai vescovi-conti. Berlusconi è riuscito a convincere della propria provvisorietà in poli­tica, oltre che se stesso, anche i suoi alleati, che hanno pa­zientemente fatto la loro par­te, e poi, un po' più impazien­ti, hanno cominciato a morde­re il freno e a immaginare il proprio posto in un futuro senza Berlusconi, che davano per scontato — gli intrusi della politica (è la traduzione esatta di outsider) infatti, come sono venuti, se ne andranno — e cui anzi hanno pensato di dare una spintarella. Così, a più riprese, sembrando Berlusconi sul punto del commiato e del congedo, i comandanti in se­conda (il primo è uno, i secon­di sono folla) hanno fatto la lo­ro corsa, mista di sortite e fre­nate e zigzag. Costoro, piccolo plotone, hanno affidato alla politica, chi più spericolata­mente, come Casini, chi più prudentemente, come Fini, le sorti della propria personale aspirazione alla successione. Ma Berlusconi non si toglieva di mezzo, e anche quando l'u­niversa politologia lo decreta­va spacciato - penultimo esempio, all'indomani delle elezioni del 2006, ultimo esempio, all'indomani della spallata mancata sulla Finan­ziaria- tornava a drizzarsi loro davanti, con quel sorriso stampato da omino del Brylcreem. L'ultima resurrezione, sulla gloria del predellino, mi­naccia il colpo di grazia agli al­leati in seconda. Già nei giorni precedenti, imploso il centro­sinistra, il centrodestra era esploso, e i suoi notabili dicevano ad alta voce quello che si dovrebbe solo sussurrare nel­la penombra di un bar minato di microspie. C'era, in quella brusca caduta dei freni inibi-tori, qualcosa di penoso, una indigestione di bocconi ama­ri, e qualcosa di maramaldo, la liquidazione senza benservito di un padronaggio troppo protratto.

È qui, direi, che i proci di Berlusconi hanno accusato il colpo, hanno sentito perduta la battaglia della pazienza e della manovra politica, e si so­no abbandonati alla biologia, cioè all'anagrafe. Con una rassegnazione disarmante, Fini l'ha detto: io ho vent'anni di meno. Vuol dire: si arrampichi pure sul predellino, faccia pu­re il suo appello plebiscitario, mi porti pure via il tappeto di sondaggi di sotto i piedi, ma fra vent'anni io avrò gli anni che lui ha oggi, e lui... Se non la politica, o la storia, sarà la natura a vendicarmi. Non è l'unico indizio della crucialità della questione ereditaria. Pren­dete la svelta adesione di Daniele Capezzone al Partito del Popolo pur mo' nato. Capezzone viene da un traumatico diseredamento, tra i Radicali italiani di Marco Pannella (78 anni, esattamente l'aspettati­va media di vita dei maschi italiani: lunga vita a Marco). Una fretta nel giovane erede (più o meno) designato, una ribel­lione al corso naturale delle cose nel vecchio capo, e la suc­cessione saltò. Se gli fuggisse dal petto lo stesso sospiro di Fini, Capezzone potrebbe vantare, rispetto a Berlusconi, una differenza non di 20, ma di 36 anni: neanche la metà. Au­guri a tutti. L'indizio più certo l'ha dato Giuliano Ferrara, evocando a proposito della mossa di Berlusconi - che ci abbia messo o no lo zampino - l'ordine di aprire il fuoco sul quartier generale impartito da Mao nel 1966, che scatenò la Rivoluzione Culturale. Ferra­ra non esclude nessuna frec­cia dal proprio arco, e a suo modo ha fatto molto per il Par­tito Democratico, e fa moltis­simo per il Partito del Popolo, ma poi, al momento di dichia­rarli marito e moglie, vedrà sfumare la cosa come al solito. (Si osservi di passaggio che tutte queste evocazioni di Lenin e di Mao e delle guardie rosse e, minimo minimo, di Eltsin sulla tolda del carro ar­mato, a un anticomunista co­me Berlusconi devono mette­re una vera allegria: vi ricorda­te il Martin Amis di "Koba il terribile", che non riusciva a spiegarsi, quanto a Stalin, il buonumore di transfughi e convertiti, "una risata e venti milioni di morti"). Bene: il Mao che lanciò la Rivoluzione Culturale aveva 73 anni, due più di Berlusconi oggi, era po­co meno che ostaggio di un apparato che si contendeva alla sua ombra l'eredità dogmati­ca e la successione al potere, e rovesciò le regole del gioco. Durò al potere, più o meno, al­tri dieci anni, sacrificò i milio­ni, e alla fine non potè impedi­re che i superstiti dentro l'ap­parato riprendessero il sopravvento: tuttavia si cavò le sue soddisfazioni. Il paragone "cinese" fissa la questione nei suoi termini essenziali: Berlu­sconi è tutt'altro che pronto a uscire di scena, battuto, o rassegnato a passare la mano. Ha davanti a sé ancora un buon tratto di strada da fare, divertendosi al gioco della politica e dell'antipolitica, re in proprio o Queen-maker (regina è la folla). Ma soprattutto ha una gran voglia di mandare gambe all'aria il tavolo della succes­sione naturale e ordinata. Mandare all'aria tutto, qual­che ora dopo che tutti gli alle­stivano il funerale politico, e senza nemmeno i conforti della religione, dev'essere una vera pacchia. La Rivoluzione culturale rispondeva all’avari­zia e al gusto del ripudio che anche sul letto di morte pren­de i veri sacerdoti del Potere. Nel nostro piccolo Berlusconi fa la stessa cosa con "la classe dirigente" del centrodestra, promuove al ruolo di Jiang-Qing la signora Brambilla — si licet - e vuoi cavarsi la soddi­sfazione di un estremo e au­tentico peronismo, lui solo sul balcone, e il popolo italiano, cioè il pubblico del Bagaglino, di sotto nella piazza. Non lo chiama "quartier generale", Berlusconi, la chiama "classe dirigente", ma il concetto è quello. Da una parte la classe dirigente e il "progetto": dal­l'altra lui e il popolo.

Vien quasi da dire che c'è una provvidenza. La meschi­nità di centrosinistra oscurava il vuoto pneumatico del centrodestra, tenuto assieme da due attese, quella melodram­matica della caduta di Prodi, e quella intrigante della giubilazione di Berlusconi. Prodi può sempre cadere, restano fior di professionisti dello sgambet­to: ma anche se succedesse, ora, la giubilazione politica di Berlusconi nel centrodestra è aggiornata a data da destinar­si. Devono confidare nell'anagrafe. La vita politica del cen­trodestra non era che una par­tita differita per la successione a Berlusconi—gli affari di un si­gnor Giulio Cesare da pugna­lare e commemorare a gara. Che non sia l'intera vita politi­ca italiana a trasformarsi in questo.

da La Repubblica del 26 novembre 2007, pag. 1


di Adriano Sofri


martedì 27 novembre 2007

La libertà, di Giorgio Gaber

Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato
che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco
con la gioia di inseguire un’avventura.
Sempre libero e vitale
fa l’amore come fosse un animale
incosciente come un uomo
compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

[parlato]: Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

[parlato]: Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto
che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura
con la forza incontrastata della scienza
con addosso l’entusiasmo
di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero
sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche un gesto o un’invenzione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

lunedì 5 novembre 2007

Beniamino Andreatta, il professore che inventò l'Ulivo,

Gli occhiali sulla fronte, gli occhi chiusi, le mani dietro la testa, l'adagiarsi comodo di un Buddha non sempre benigno o di un orso non sempre feroce. Sembrava dormisse, non ascoltasse, poi improvvisamente una frase, un'idea, una soluzione. Che spesso pareva non c'entrare nulla. Invece... Gli piaceva parlare di "dissennatezza dei competenti", con l'autoironia di chi soffriva a fondo l'ironia altrui. Professore, primo della classe da sempre, fin dal premio come miglior laureato del 1950.

Beniamino Andreatta si sentiva il competente che conosceva i rischi dell'insensatezza in un mondo impreciso, il politico che "deve cercare di essere poeta, creativo" in una visione insieme pedagogica ed estetica. Citava il cattolico Pascal dell'"esprit de geomètrie" e dell'"esprit de finesse" per spiegare - arrivando al protestante Max Weber - la sua etica e la sua professione politica. Ha unito don Sturzo e Dossetti, senza mai dimenticare De Gasperi e il suo realismo rigoroso. Si è formato, a Padova, negli studi di filosofia del diritto con Norberto Bobbio e, a Milano, al ruolo di "economista istituzionale" con Pasquale Saraceno, uno dei padri dell'Iri. Ha insegnato Keynes e ne ha infranto fra i primi l'ortodossia. Ha predicato tagli e difeso lo Stato sociale contro la "paccottiglia" di Berlusconi. Ha sbeffeggiato il solidarismo che non si confronta con l'economia, ma è stato con Forlani in un governo che - lui al Tesoro - ha fatto esplodere la spesa pubblica. Ha cercato Dc sempre diverse di quelle che c'erano e in cui c'era lui, finché alla fine qualcuno gli ha pure rinfacciato di essere stato - con Martinazzoli - fra i "becchini" del partito cattolico. Ha sognato una programmazione in senso liberale e indicato come storici esempi del governare Quintino Sella e Marco Minghetti, ha seguito Aldo Moro e lanciato Romano Prodi. Non sopportava la "voglia di egemonia" di comunisti, ex e post, sperava in un confronto bipolare fra un centro dabbene e una sinistra mutata, ma è stato fra i padri dell'Ulivo che ha sposato ex-democristiani ed ex-comunisti.

Contraddizioni? Lui, con la testa abbassata, alzandola a scatti come un martello, chiedeva a sua volta: "Avete mai provato a sposare la razionalità con la passione? A coniugare la visione del tutto e l'attenzione del particolare? Non è facile, non è facile".

Era nato a Trento l'11 agosto 1928, orgoglioso di appartenere a una terra di confine. La moglie l'ha trovata di una città di margine fascinoso: la signora Giana è di Trieste, si conobbero alla Cattolica di Milano dove lui cominciava ad insegnare e lei studiava lettere per diventare poi psicanalista. E a quale scuola familiare sia cresciuto lo raccontano una madre asburgica e un padre funzionario di banca, cattolico liberale, che seguì Cesare Battisti arruolandosi nell'esercito italiano allo scoppio della Grande Guerra poi, soldato nell'ultimo conflitto, preferì la deportazione in Germania al giuramento a Salò. Tornò, Nino Andreatta padre, e il mattino dopo era già alla sua scrivania.

Il figlio si laureò in giurisprudenza a Padova, poi se ne andò a Milano, al Sacro Cuore, a specializzarsi negli studi economici. Lì conosce Siro Lombardini, che diverrà una guida nell'approccio fra l'economia come conoscenza e la politica come governo.

"Ciascuno attinge alla sapienza e cerca di tradurla in azione, senza la sacrilega convinzione di coinvolgere Dio nelle sue scelte" racconterà poi Andreatta per spiegare una formazione avvenuta anche sui grandi teologi protestanti come il Bonhoeffer morto in un lager. "Etica della responsabilità", "dignità della politica", due concetti che torneranno in anni recenti, quando ministro del Tesoro ordinò la liquidazione coatta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, scoperchiando un pozzo dei misteri che portò anche in Vaticano, allo Ior, al cardinal Marcinkus.

È la separazione fra valori cristiani e tutela della Chiesa sulla politica a legarlo ad altri giovani formatisi con lui nella Fuci e sulle "Cronache Sociali" di Giuseppe Dossetti: da Giuseppe Alberigo a Paolo Prodi, lo storico che gli presenterà - "studia economia" - il fratello più piccolo, Romano. Diverrà il suo discepolo più famoso e sarà Andreatta a spingerlo nel '95 a scendere in politica per unire centro e sinistra contro Berlusconi. Infinite conversazioni, nel salotto di casa Prodi che non ha mai smesso di dargli del lei, di chiamarlo professore con deferenza e non senza qualche timore.

Ma non fu mai un professore prestato alla politica, Andreatta. A unificare le due passioni fu Dossetti e il Keynes filtrato da Giorgio La Pira. Nel '62 incontra un altro dei suoi padri: Aldo Moro. Sta nascendo il centro-sinistra, il leader Dc nota il professore a San Pellegrino, a uno dei convegni del partito per prepararsi alla nuova via. Andreatta diventa consigliere economico di Moro. E si dimentica su un treno il discorso che questi deve pronunciare da presidente del Consiglio: la smemoratezza - dalle pipe infilate in tasca accese alla moglie lasciata a Roma, l'auto a Londra - arricchirà un'anedottica di cui lui ha molto patito, ma in cui ogni tanto lo solleticava avvolgersi, come nei vestiti e nelle cravatte che riusciva sempre a stropicciare.

"È uno che a un problema ti da dieci soluzioni. E una è buona" lo presentò Moro a Nenni. Andreotti chiosò che il "genio" è come la mostarda: un po' da sapore, un piatto intero non lo mangia nessuno. E Craxi: "intellettuale inventore, politico inventato". Con Moro, in un rapporto e in un progetto complesso come i due personaggi, tentò di conciliare tradizione cristiana e modernità, con competenze da economista e passione politica.

Quando le Br uccisero Moro lui sognò un "bagno purificatore" nella Dc. Due anni prima Zaccagnini lo aveva voluto senatore, l'anno dopo Cossiga lo prese come ministro al Bilancio, poi lo retrocesse a un senza portafoglio Incarichi speciali. E lui si inventò le "case Andreatta". Un'impronta, come in tutti i suoi passaggi nei palazzi del potere. Fu così per l'obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa e minore entrata quando guidava la Commissione Bilancio. Per il divorzio tra la Banca d'Italia e il Tesoro, di cui era ministro, e che liberò l'istituto di credito dal vincolo di acquistare - emettendo valuta - titoli di Stato non assorbiti dal mercato. Mossa storica, cementò il rapporto con Carlo Azeglio Ciampi: si dava un ruolo primario agli organi tecnici e si ripuliva il potere di controllo dei politici.

L'attivismo dell'apparentemente pigro Andreatta. A Bologna, alla cui paciosità si è sempre ribellato pur vivendoci ed amandola, ha creato una scuola di economisti che ha sprovincializzato la cultura in Italia: la partenza fu l'introduzione in un panorama statico dei modelli del progetto Link del Nobel Laurence Klein sulle connessioni fra le economie mondiali. Furono Prodi, Tantazzi, Basevi, Onofri, Quadrio Curzio, Mario Draghi, Cavazzuti, Gobbo, Bianchi... Fu il centro di previsioni Prometeia, fu l'esplodere del Mulino. A Roma fu l'Arel, per introdurre una cultura legislativa nella politica. Quando nel ' 68 insegnava a Trento, in una facoltà di sociologia voluto da una sinistra dc ambiziosa di nuovi strumenti interpretativi, di fronte a studenti in contestazione all'incirca generale se ne saltò sulla cattedra per far sentire le proprie ragioni. D'abbasso c'era anche un giovanotto chiamato Renato Curcio, non proprio contento di sentir definire la rivolta "una forma di regressione antropologica". L'estremismo di centro di Andreatta che non sopportava gli estremismi ma quasi si divertiva a scatenarli.


martedì 23 ottobre 2007

Tucidide e la democrazia per gli ateniesi

Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto democrazia.
Le leggi assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora egli sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se preferisce vivere a modo suo.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e le leggi, e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono un’offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede solo nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso.
La nostra città è aperta al mondo; noi non cacciamo mai uno straniero.
Noi siamo liberi di vivere proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private.
Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione un ostacolo sulla strada dell’azione politica.
Crediamo che la felicità sia il frutto della libertà e la libertà sia solo il frutto del valore.

martedì 2 ottobre 2007

Quaderni dal carcere

Ho infine terminato la lettura dei quaderni del cacere di Antonio Gramsci,
che con alterne vicende mi ha occupato fino alla
scorsa settimana
La lettura a mio avviso può essere effettuata in due maniere:
-come opera a sé stante nell'ambito di un discorso biografico e di
conoscenza del pensiero gramsciano
-come momento di analisi del pensiero filosofico e storico del partito
comunista negli anni '30

Se vista come opera utile ad una conoscenza del Gramsci-pensiero, essa
impressiona per la vastità degli scritti, per la diversità dei "know-how"
, per l'amore per la conoscenza, vista e vissuta quasi come una religione.
Il tutto, non dimentichiamolo, in una situazione di disagio sia psochico sia
fisico di crescente gravità. Impressiona la vitalità, quei sui continui
"controllare" "verificare" ecc.., la straordinaria lungimiranza di alcune
previsioni. Davvero da leggere "americanismo e fordismo", e certe taglienti
stoncature degli innumerevoli "nipotini di padre bresciani". L'idea di un
paese da farsi, di una fiducia "comunque" nelle potenzialità di quello che
allora poteva dirsi un paese sotto scacco. Ogni tanto rispunta fuori lo
studente di Torino, il caricaturista che in una riga didintegra il
presonaggio. Una su tutte
"Vittorio Emanuele è stato identificato come il re galantuomo, come se
galantuomo fosse un segno distintivo o raro."

Se vista invece in un ottica di critica del pensiero filosofico crociano,
inteso come idealismo di una classe plotica borghese, il formidabile
apparato storicistico si basa fondametalmente sullo sviluppo della filosfia
della praxis, vista come ultimazione dello storicismo marxiano: la realtà
appare in tutta la sua cruda verità, si è spogliata di ogni elemento
teologico.

mercoledì 19 settembre 2007

Gesù Nazareno. Un colloquio con Mauro Pesce.

Inchiesta su Gesù è un libro di carattere divulgativo, scritto a quattro mani con Corrado Augias. Dopo tanti anni di ricerca accademica sul Gesù storico, come sei giunto all’idea di scrivere questo libro? Come è stato il rapporto tra domande e risposte al di fuori degli ambienti di specialisti?

Il mio libro Le parole dimenticate di Gesù (Mondadori-Lorenzo Valla) del settembre 2004 aveva avuto un successo inaspettato nonostante si trattasse di una voluminosa antologia in greco e in latino con un commento molto tecnico. Ho intuito perciò che un vasto pubblico aveva un interesse a conoscere i risultati scientifici delle indagini storiche su Gesù. Quando Augias mi propose un’intervista su Gesù ero quindi in qualche modo già pronto ad accettare.

Chiedendomi quale sia il rapporto tra domande e risposte tu metti il dito sulla questione centrale del libro. Augias non ha fatto domande sue, ma, da grande professionista quale è, si è fatto portavoce delle domande che — a suo giudizio — erano le più diffuse e sentite in un vasto pubblico. In un processo di divulgazione è fondamentale innestare i risultati della ricerca scientifica sul bisogno reale della gente. Non basta esprimersi in modo chiaro e semplice. È necessaria una accurata conoscenza della situazione culturale in cui la maggioranza della popolazione vive. C'è poi bisogno di un meccanismo di promozione che segnali il prodotto-libro a vasti strati della popolazione, in modo da suscitare interesse verso la lettura.

Devo però dire che il successo del libro ha per me anche un aspetto fastidioso, perché le cose che dico nelle mie risposte ad Augias erano già state da me esposte varie volte in una quantità di articoli e libri scientifici che non hanno riscosso un così vasto interesse. Questo fatto esige risposte pratiche sui modi di trasmissione del sapere nella società di oggi.

Le polemiche scaturite dalla pubblicazione di questo libro sono sconcertanti, lasciano intravvedere una cultura italiana arretrata, una Chiesa cattolica arroccata su posizioni difensive d’altri tempi. Molti di noi hanno pensato alla figura di Ernest Renan, allo scandalo suscitato dalla pubblicazione di quel libretto La vie de Jesus che fu un best-seller ottocentesco. Ma questo accadeva quasi un secolo e mezzo fa. Perché secondo te questo libro su Gesù in un’Italia tutto sommato moderna, ha suscitato un dibattito così acceso e molto spesso non privo di mistificazioni gratuite?

Il fatto che «Avvenire», il giornale che esprime il parere della Conferenza Episcopale Italiana, sia intervenuto per ben tre volte sul libro e che addirittura «Civiltà cattolica» abbia pubblicato un articolo di condanna dogmatica è sintomo del fatto che una certa parte del cattolicesimo italiano si è spaventato. «Avvenire» ha mobilitato il padre Cantalamessa, molto noto per la sua costante presenza televisiva, affinché un vasto pubblico cattolico avesse una riposta rassicurante contro gli eventuali pericoli per la fede che il libro a suo parere poteva costituire. L'articolo del padre De Rosa su «Civiltà cattolica» ha invece la funzione — credo — di avvisare in modo indiretto, ma molto chiaro, gli esegeti cattolici, soprattutto sacerdoti, su cosa potrebbe succedere loro se seguissero il mio esempio. Sarebbero condannati, esclusi dall'insegnamento e le case editrici cattoliche dirette da sacerdoti e ordini religiosi sarebbero ugualmente sottoposte a censura.

Quello che colpisce negli articoli di Cantalamessa e De Rosa è il fatto che non presentano correttamente il mio pensiero e anche che cerchino di denigrarmi sul piano professionale. Per questo motivo chiedo a «Storicamente» di inserire come appendice a questa intervista la mia risposta dettagliata a cantalamessa e a De Rosa. Si tratta di risposte lunghe e tecniche, che sono però necessarie per comprendere la natura di questi due attacchi ecclesiastici.

Bisogna dire tuttavia che questi due attacchi non rappresentano affatto tutta la Chiesa cattolica, ma solo due orientamenti romani. Le Edizioni Paoline hanno assunto un ben altro atteggiamento su «Letture», «Vita pastortale» e su «Jesus». In nessuno di questi giornali si troverà una condanna. Devo ringraziare le redazioni di «Letture» e de «Il regno» (quest’ultimo delle Edizioni Dehoniane di Bologna) per avere trascorso con me alcune ore rispettivamente a Milano e Bologna discutendo e presentandomi obiezioni anche serie, ma sempre rispettose. Molti sacerdoti e parroci hanno avuto reazioni favorevoli. Cantalamessa — che è persona certo molto intelligente e preparata — mi sembra invece farsi carico della posizione dei movimenti ecclesiali, i quali, mettono, sì, al centro della loro vita religiosa, la Bibbia e quindi il Nuovo Testamento, ma senza un'adeguata preparazione esegetica (da parte dei membri dei movimenti) e corrono perciò il pericolo di cadere a volte in tendenze fondamentaliste. Il Padre De Rosa mi sembra al contrario più vicino alle preoccupazioni teologiche del cardinal Ruini e di ambienti teologici romani conservatori o neoconservatori che tendono a coprirsi con le idee teologiche dell’attuale Papa.

La ricerca sulla vita di Gesù – ma per esteso sulla storia del cristianesimo e sulle religioni – rimane in questo paese ancora un affare di pochi. Quando questi temi escono dall’accademia, dagli ambiti ristretti del dibattito scientifico internazionale, allora emergono due posizioni nette: da un lato il plauso acritico dei “laici”, accompagnato talvolta da un assoluto disinteresse, o le accuse animose di esponenti ecclesiastici, coadiuvato dagli intellettuali cattolici organici, quei laici cioè che si adoperano in modi differenti per diffondere capillarmente le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Sembra che in questo paese la riflessione autonoma, indipendente su tematiche di carattere religioso sia prerogativa di pochi. Perché la Chiesa cattolica teme la libertà di pensiero su questioni religiose?

Perché la Chiesa cattolica tema la libertà di pensiero su questioni religiose è una domanda a cui temo di non avere una risposta adeguata. Anzitutto, come ho fatto con la domanda precedente, non parlerei di Chiesa cattolica in generale. Si tratta soltanto di alcuni ambienti ecclesiastici romani. La Chiesa cattolica rappresenta nel mondo di oggi una realtà estremamente variegata, ricca di esperienze straordinarie in ogni parte del pianeta, inclusa l'Italia, straordinarie per il loro valore etico, umano e religioso. Anche in Italia, negli ordini religiosi, nelle parroccchie, tra la gente di fede cattolica esiste una ricchissima varietà di posizioni che sono lungi dall’identificarsi con alcune tendenze teologiche e politiche neoconservatrici romane.

Detto questo, è però vero che una certa tendenza tipicamente cattolica a delegare ai soli sacerdoti il sapere e ai laici una posizione intellettualmente subordinata non è stata realmente modificata dal Concilio Vaticano II nonostante la sua insistenza sul “sacerdozio universale dei fedeli”. Ciò significa che i sacerdoti ricevono una formazione esegetica spesso approfondita, ma non i laici i quali perciò non hanno strumenti adeguati per comprendere l'analisi storica dei testi biblici e della figura storica di Gesù. Da qui la preoccupazione della gerarchia di impedire il più possibile una divulgazione pubblica dei dibattiti esegetici che obbligherebbe ad un divcrso rapporto clero-laicato.

Alcuni hanno forse pensato che per porre rimedio al fatto che qualche centinaia di migliaia di persone aveva letto il libro Inchiesta su Gesù, era opportuno denigrare l'esegeta Mauro Pesce dal punto di vista scientifico e dottrinale in modo da togliergli autorità rispetto al pubblico cattolico. Ma il punto è che le tesi storiche che io espongo sono largamente diffuse nell'esegesi internazionale. Il passaggio dalla ricerca storica alla visione di fede richiede numerosi passaggi intermedi. L'esegesi studia i testi dei vangeli uno per uno, non come parte di una collezione canonica ispirata da Dio. Per questo motivo, nelle Facoltà teologiche, dopo l'esegesi si accede ad un diverso insegnamento che è quello della teologia biblica che parte dall'insieme del Nuovo Testamento. I dati della teologia biblica vengono poi assunti ad un terzo livello ulteriore, quello della teologia dogmatica, che a sua volta diviene la base per la teologia pastorale e per la teologia morale, che più direttamente investono la vita concreta dei fedeli. Alcune autorità ecclesiastiche temono che un contatto diretto della gente con l'esegesi storica metta in crisi quella serie di passaggi ermeneutici e teologici che permette alla Chiesa di fondare il proprio attuale assetto. Ma per ovviare a questo pericolo basterebbe una maggiore informazione.

Quando si discute di Gesù si capisce con facilità che molte delle direttive del Vaticano II sono rimaste lettera morta. È chiaro che quella stagione storica è finita, e forse non ha neanche raggiunto gli obiettivi che si erano posti i padri conciliari. Il problema del Gesù storico apre una difficile questione di rapporti con l’ebraismo. Perché ancora suscita scandalo il Gesù ebreo?

Permettimi di rispondere in due tempi. Il Cardinal Ruini, nella sua posizione di grande rilievo ecclesiastico, ha cercato di condannare la lettura storica che del Concilio Vaticano II ha dato la Storia del Concilio diretta da Giuseppe Alberigo e ha proposto una sua lettura di questo evento che tende a negarne sostanzialmente l'innovazione. Dal punto di vista degli studi biblici, il fatto certamente positivo, di avere messo dopo tanti secoli, la Bibbia al centro della vita della Chiesa ha avuto anche effetti negativi. L'effetto negativo principale sta nel fatto che nel momento in cui la Chiesa ha messo finalmente la Bibbia a contatto diretto con il popolo fedele, ha però cercato di marginalizzare l'esegesi storico-scientifica perché troppo difficile e pericolosa per i fedeli. Accusata di aridità e di non fornire sufficiente nutrimento religioso, l'esegesi storica è stata sostituita spesso da un'esegesi "spirituale", a volte ispirata all'interpretazione allegorica degli antichi Padri della Chiesa, a volte semplicemente moraleggiante ed intimistica. Il pericolo per la teologia biblica postconciliare è di separarsi troppo dallo stato attuale della ricerca scientifica. Credo che oggi lo scollamento di molti ambienti ecclesiastici dalla ricerca scientifica, non solo esgetica e storica, sia considerevole. E ciò crea un pericolo di una certa involuzione della Chiesa cattolica.

Quanto alla questione ebraica, è certo vero che la chiesa cattolica dal 1965 ad oggi ha prodotto un numero strordinario di documenti in cui vengono radicalmente criticati i presupposti dell'anti-ebraismo e dell'antisemitismo cristiano dei secoli passati. È però anche vero che questi documenti hanno avuto scarso impatto sulla popolazione dei fedeli e tra gli stessi teologi. In Inchiesta su Gesù, una delle mie affermazioni più contestate da Cantalamessa e De Rosa è proprio quella che Gesù è un ebreo e non un cristiano. Ciò è ovvio nella letteratura esegetica, ma non per loro. In realtà le affermazioni contenute ad esempio nei Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella catechesi e nella predicazione della chiesa cattolica del 1985 o anche molti paragrafi del Catechismo della Chiesa cattolica sono rimasti per lo più lettera morta e i fedeli non li conoscono. Quello che io dico nel libro sull'ebraicità di Gesù è già sostanzialmente in questi documenti cattolici ufficiali.

Sei stato accusato di avere privilegiato, nella tua ricerca su Gesù, i testi apocrifi del Nuovo Testamento contro quelli canonici. Ma dal libro questo non emerge per nulla. Anzi oserei dire che molta attenzione è dedicata al Gesù del Vangelo di Giovanni, a cui tu a hai dedicato molti studi. Mi ha molto colpito quel Gesù così intensamente mistico. Vorresti spiegare come sei giunto a decodificare quelle che tu chiami «le esperienze religiose» dell’uomo Gesù? Come è possibile, e non solo per uno storico dell’antichità, ricostruire le forme dell’esperienza individuale di una personalità religiosa del calibro di Gesù? Vorrei che tu spiegassi le procedure metodologiche che utilizzi per analizzare un testo religioso.

È vero che il Gesù religioso e mistico è un aspetto che ho voluto sottolineare in modo particolare e a cui tengo molto. Come posso essere certo di potere ricostruire storicamente in modo attendibile le esperienze religiose di Gesù? Quali sono le mie procedure metodologiche? Rispondo sommariamente. Più che i diversi criteri di storicità elaborati da tanti esegeti, per me è fondamentale distinguere gli elementi chiaramente attribuibili alla redazione di un evangelista rispetto alla tradizione che egli elabora: si tratta di un criterio negativo. Ciò che è tipico di un evangelista è sua creazione o creazione del suo ambiente (anche se resta il problema di chiarire come questa innovazione si radichi sulla tradizione precedente). Questa distinzione permette di fare passi indietro verso tradizioni più antiche e più originali. È a questo punto che la convergenza tra tradizioni antiche adddita strati più vicini a Gesù stesso. Qui diventa estremamente importante chiarire i modi di trasmissione di questi materiali antichi, la molteplice attestazione di fonti indipendenti, le forme culturali. Alla base della mia ricerca sta non tanto la cosiddetta terza ricerca su Gesù, quanto invece uno studio socio-antropologico delle fonti che rintraccia anzitutto i presupposti culturali degli strati profondi dei testi, poi gli ambienti dei discepoli di Gesù da cui il testo proviene (secondo livello del testo) senza concentrarsi soltanto sul terzo livello esplicito del testo. Sono queste forme culturali — che ho studiato ad esempio nell'ultimo libro Forme culturali del cristianesimo nascente (Brescia, Morcelliana 2006) scritto a quattro mani con Adriana Destro — che permettono di confrontare le esperienze religiose dei primi seguaci di Gesù con quelle atttribuite a Gesù stesso. La preghiera, le rivelazioni soprannaturali sono due forme culturali particolarmente interessanti per comprendere aspetti centrali della vita di Gesù.

Nel libro tu presenti ad un vasto pubblico alcuni dei risultati della ricerca storica su Gesù e le diverse interpretazioni che sono state date della sua vita e delle sue azioni – Gesù mistico, taumaturgo, mago, profeta, predicatore attento ai problemi sociali del suo tempo. Come si procede dal punto di vista storico alla ricostruzione della vita di Gesù? Quali sono le correnti storiografiche più accreditate? Esistono anche altrove conflitti tra la ricerca scientifica e le chiese?

I tre gruppi scientifici — molto diversi fra loro — che hanno a mio avviso maggiormente contribuito al rinnovamento degli studi su Gesù e sul cristianesimo antico sono l'Association pour l’Etude de la Littérature Apocryphe Chrétienne (AELAC) europea, il Jesus Seminar statunitense, e le tendenze europee e statunitensi che rileggono le origini cristiane in modo socio-antropologico. Queste tre correnti hanno suscitato problemi, proposto nuove fonti e nuovi paradigmi interpretativi che hanno costretto moltissimi a rinnovare problematiche, metodi e soluzioni. Personalmente, pur avendo forti legami con l’AELAC, sono legato alla terza tendenza. Ne sono testimonianza una cinquantina di articolo scritti insieme all'antropologa Adriana Destro e libri come Antropologia delle origini cristiane (Laterza 1995) e Come nasce una religione (Laterza 2000). Tuttavia, io sono in genere metodologicamente e storiograficamente onnivoro. Non mi piacciono le scuole e i loro gerghi.

Queste nuove tendenze sono diffuse anche tra l'esegesi italiana, ma poco nella teologia cattolica. Del resto, nonostante l'amplissimo e libero dibattito che si svolge nella Society of Biblical Literature, anche nelle chiese statunitensi l'esegesi scientifica è poco recepita.

Contrariamente a quanto è stato affermato nelle polemiche recenti, il Gesù delle tue ricerche fa riemergere la complessa figura che si viene a cristallizzare nella memoria delle diverse comunità cristiane. Come avveniva la trasmissione della memoria di Gesù per i primi cristiani? Cosa leggevano e cosa conoscevano le prime comunità cristiane della vita, degli insegnamenti e delle azioni di Gesù?

La memoria di Gesù nelle prime comunità di discepoli di Gesù avveniva in modi fortemente differenziati. Agli inizi, la trasmissione dei fatti e delle parole di Gesù avveniva in ambienti ebraici i quali fornivano il contesto istituzionale religioso di base. Solo quando questo contesto ebraico in diverse zone e in epoche diverse cominciò ad allentarsi, divenne primaria l'esigenza di fondare soprattutto in Gesù le usanze religiose, liturgiche, la prassi morale e ideologica dei gruppi. È in questa fase che i vangeli adempiono ad una funzione importantissima. Nelle mie risposte ad Augias ho detto brevemente quello che avevo ipotizzato in un mio saggio e cioè che paradassalmente i vangeli — che ci permettono l'accesso privilegiato alla conoscenza di Gesù — ne costituiscono anche una prima forma di de-giudaizzazione e di cristianizzazione. Ma questa affermazione va intesa all'interno degli studi specializzati sui modi di trasmissione dei materiali relativi a Gesù e non come una svalutazione del significato e valore storico dei vangeli canonici. È comunque molto difficile stabilire con precisione cosa le singole comunità dei seguaci di Gesù leggessero, quali libri protocristiani usassero e quali testi ebraici. La trasmissione orale della parole e dei fatti di Gesù rimase viva almeno fino alla metà del II secolo con un valore anche più rilevante di quello che avevano opere scritte come i quattro vangeli divenuti poi canonici, i quali solo alla fine del II secolo cominciarono ad essere considerati più importanti degli altri.

Tu hai spesso sostenuto che il cristianesimo delle origini è un fenomeno culturale e religioso differenziato. Si parla spesso di diverse forme di cristianesimi. Come si è diffuso il cristianesimo nell’Impero romano? Qual è il rapporto tra un movimento religioso apparso nel mondo ebraico della Terra d’Israele e la sua diffusione negli ambienti urbani dell’Impero romano?

La tua domanda riguarda in fondo la grande questione della nascita del cristianesimo che comincia a formarsi solo dopo che le comunità dei discepoli di Gesù non fecero più parte della comunità dei Giudei. La mia affermazione che il cristianesimo come lo intendiamo noi potrebbe essere nato solo nella seconda metà del II secolo ha suscitato un enorme reazione da parte di Cantalamessa e di De Rosa, ma si tratta di un'affermazione storiografica ben articolata che è molto diffusa tra gli studiosi di oggi e non contiene nulla di contrario al cristianesimo. Nel 2004, un numero intero della rivista «Annali di Storia dell'Esegesi» dal titolo Come è nato il cristianesimo? è stato dedicatto a questo tema e studiosi di ogni parte di Europa prendono posizione a favore di una nascita tarda. Lo scandalo nasce solo da una insufficiente informazione del dibattito. In ogni caso, al centro del problema stanno tre fatti: Gesù era un ebreo perciò si pone neccssariamente la questione del quando il cristianesimo sia nato. Secondo: all'inizio esiste una molteplicità di versioni diverse della fede in Gesù e solo dopo la seconda metà del II secolo si afferma un cristianesimo normativo. Terzo: con il diffondersi nell'Impero romano ed in altre parti del mondo antico, le comunità di seguaci di Gesù non furono più composte da Ebrei e questo comportò una sostanziale modifica. L'interpretazione dell'incrociarsi di questi tre fattori costituisce un grande problema storiografico che è oggi molto dibattuto e lontano dal vedere un consenso nelle soluzioni.

La “questione religiosa” diventerà, forse, una questione di primaria importanza nei prossimi decenni. Non si tratterà solo del rapporto tra cristianesimi e società, ma anche di quello tra cristianesimi, società moderna e altre religioni. Come vedi questo rapporto anche alla luce delle vicende attuali sul tuo libro?

La questione religiosa è certo al centro del nostro futuro, anche se non dobbiamo mai dimenticare che spesso i fattori che la determinano non sono primariamente religiosi. Mi sono convinto da tempo che le religioni, dalla fine del Settecento in poi, si sono differenziate al proprio interno in diverse correnti che si diversificano per il modo con cui rispondono ad alcuni grandi problemi posti dalla cultura contemporanea i quali sono, a mio avviso: la presa di coscienza dei diritti naturali dei singoli, la scienza moderna e la sua spiegazione del mondo, lo studio storico delle religioni e i nuovi modi di vita sviluppati nelle grandi capitali culturali del mondo. Esiste un ventaglio di risposte religiose che va dall'accettazione di questi elementi culturali al loro radicale rifiuto attraverso tutta una serie di posizioni intermedie di compromesso. Lo studio storico di Gesù è uno dei frutti dello studio storico delle religioni e il dibattito pubblico sui fondamenti del cristianesimo rientra in quella caratteristica tipica delle società contemporanee fondate sui diritti naturali dei singoli, caratteristica che consiste nella cosiddetta "società civile", uno spazio neutro in cui tutti possono esprimere liberamente le proprie idee religiose, areligiose o irreligiose e non connotato, quindi, da una religione in particolare. L'università — fondata sul metodo scientifico — è il frutto tipico della società civile. La Chiesa cattolica ha impiegato circa settanta anni dal 1893 in poi (data della Enciclica di Leone XIII, Providentissimus Deus) per accettare lo studio storico della Bibbia, ma poi negli anni ’80 e ’90 del Novecento ha conosciuto il ritorno di una teologia - non so quanto maggioritaria nel mondo cattolico - che nega o attenua molto l'interpretazione storica.

Il fatto è che l'atteggiamento della teologia islamica è completamente ostile ad una interpretazione storica del Corano e della religione islamica nel suo nucleo profetico fondante. Di fronte all'irrigidimento fondamentalista di gran parte della teologia islamica le altre religioni stanno subendo un parallelo e contrapposto irrigidimento. Il riconoscimento dello spazio neutro della società civile tende così a diminuire da parte delle grandi religioni mondiali che desidererebbero occupare un sempre maggior numero di spazi sociali.


A cura di Cristiana Facchini

presente su storicamente.org

lunedì 3 settembre 2007

L'Europa moderna di Paolo Viola

L'Europa moderna di Paolo Viola è una sfida che in pochi hanno avuto sinora l'animo di affrontare. È un libro che nasce dall'esperienza d'insegnamento di una disciplina, la «storia moderna», che negli ultimi anni sembra esser divenuta una nuova "età di mezzo" dallo statuto incerto rispetto alle discipline sorelle, medievistica e contemporaneistica. È un libro calato ben dentro il suo tempo e i dibattiti attuali. La sfida sta proprio in questo: scrivere una nuova sintesi della storia moderna prendendo coscienza di una fine nota, diversa rispetto alla sensibilità di qualche decennio addietro: non le rivoluzioni politiche ed economiche settecentesche, ma ciò che l'autore definisce il «suicidio dell'identità europea» nella Prima Guerra mondiale. Una fine e una narrazione su cui si può discutere, ma che hanno il grande pregio di restituire ai secoli dell'età moderna un senso per il tempo presente in una prosa accessibile, quando non avvincente. È una sfida vinta.

Non è questa la sede per un esame dell'identità europea descritta da Viola. Basti dire che se nobiltà, Chiesa cristiana e città sono i suoi caratteri originali, l'identità europea moderna è plasmata da «armi» - capitalismo, Stato moderno, capacità culturale di confronto con la diversità - che si dispiegano nella competizione e nel conflitto: l'identità europea si forma nel pluralismo degli ordinamenti, delle confessioni e delle culture; nella conquista laica del tempo e dello spazio - il territorio controllato dallo Stato, ma anche le risorse e i mercati integrati progressivamente in quella che I. Wallerstein chiama economia-mondo capitalista. I significati di libertà e democrazia che si sviluppano con l'identità europea sono differenti da quelli che avevano designato, da una parte, privilegi e prerogative di aristocrazie e corpi istituzionali, dall'altra il governo di popolo nella polis greca: sistema di diritti e eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, la prima nasce dai conflitti di religione e dalle Rivoluzioni inglesi; la seconda include nella partecipazione politica coloro che anche nel percorso liberale britannico rimanevano esclusi, i coloni americani, ma soprattutto poveri e lavoratori - sviluppo che non può immaginarsi senza la Rivoluzione francese.

Interessa qui soprattutto sottolineare che attorno a questa «idea di età moderna» gli elementi di conoscenza fondamentale si integrano in una narrazione storica compiuta, che dispensa finalmente da capitoli storiografici chiusi, senza lasciare un senso di vuoto e imbarazzo interpretativo. Il lettore è liberato dalle partizioni secolari e da alcune tematiche classiche. Sotto la categoria della «scoperta della complessità» stanno le esplorazioni geografiche, la conquista delle Americhe, la frattura della cristianità e lo sviluppo delle forme originarie del capitalismo finanziario. Dalle Guerre d'Italia alla Guerra dei Trent'anni si delineano le condizioni dei «ritardi» della penisola italiana e del mondo tedesco nella costruzione dello Stato, il cui percorso passa fra gli anni '40 del Seicento e la Rivoluzione americana dalla competizione politica e economica fra il modello britannico, la variante repubblicana olandese, e quello assolutistico francese. Queste due grandi sequenze temporali, che sono insieme gran parte della vecchia idea di «storia moderna», vedono il dispiegarsi della «flessibilità delle armi europee»: l'espansione globale della potenza economica dalle città medievali alla Guerra dei Sette Anni; il pluralismo istituzionale, a partire dal dualismo Stato/Chiesa e dalla pletora di giurisdizioni concorrenti, che configura una produzione di ordinamenti giuridici plurali dal basso recepiti nella costruzione dello Stato centralizzato, «strumento raffinato e articolato» «di dominazione e di gestione della complessità»; lo sviluppo della «tolleranza», attraverso la separazione settecentesca di Stato e società, in dottrina politica liberale e democratica culminante in quel sogno di eguaglianza e fraternità che è stato, in passato, un punto d'arrivo e si rivela, oggi, l'inizio di un fallimento.

Rivoluzione e controrivoluzione coprono, infatti, insieme il terzo tempo della storia moderna: quella in cui alla rivoluzione della libertà e dell'eguaglianza sopravvive, e si esporta dalla Francia in tutta Europa, quella della «nazione». È il tempo della competizione tra liberali e democratici, in cui alla fine il verbo nazionalista è raccolto e esaltato, contro entrambi, dall'opzione reazionaria delle classi dirigenti più retrive: la loro è una risposta alla domanda d'identità in una società in rapida trasformazione, che si basa sul legame interclassista di sangue e terra e la preesistenza dello Stato rispetto al cittadino. Libertà e democrazia sono contemporaneamente portate avanti nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna e Stati Uniti, dalle necessità pragmatiche di società già allora caratterizzate da un avanzato sviluppo capitalistico, nient'affatto esenti da esclusioni di ceto e di razza. Ma il nation building continentale, rispetto a cui il socialismo internazionalista figlio della stessa domanda di identità si rivelerà troppo debole, è il suicidio dell'identità plurale e pluralista europea nel razzismo e nella xenofobia imperialista.

Il discorso è incompleto, Viola ne è consapevole. La storia si scrive da una posizione, e la storia moderna da lui ripercorsa è quella che si può «ancora narrare dal punto di vista dei vincitori». L'altro versante si intravede quando il «successo senza eguali» della conquista europea del mondo alla complessità politica e sociale "moderna" trabocca nei genocidi, nella cancellazione delle culture e nello sfruttamento degli "altri" già prima dell'800, nel razzismo e nazionalismo che li alimenta dopo. La storia delle identità dei «(provvisoriamente) vinti» manca ancora all'appello. Ma sarebbe sfida meritevole. Anch'essa contribuirebbe a chiudere sugli scaffali di una cultura storica passata manuali «aggiornati» e «rivisti» più per rispondere al patto non scritto tra mercato editoriale e burocrazia ministeriale che alla ricerca di senso.


di Mario Caricchio, presente presso storicamente.org

giovedì 23 agosto 2007

L'eteronimia in Fernado Pessoa

L'eteronimia

Se il Libro di Pessoa ha un centro, questo centro è l'eteronimia, come sostiene Antonio Tabucchi, suo appassionato traduttore, critico e studioso; e questi spiega bene questa peculiarità:
«Si immagini un Paese (il Portogallo) che vive per vent'anni (dal 1914 al 1935) un'età dell'oro della letteratura: poeti, saggisti, prosatori, dalle fisionomie inconfondibili e a volte incompatibili, tutti però di altissima qualità, vi operano insieme, si incontrano, si scontrano. Uno sperimentatore violento e straripante, suscitatore di avanguardie, come Álvaro De Campos, un desolato nichilista come Bernardo Soares, un poeta metafisico ed ermetico come Fernando Pessoa, un neoclassico come Ricardo Reis e, dietro a tutti, un maestro precocemente scomparso: Alberto Caeiro. Ebbene: tutti questi autori, tutte queste opere, tutti questi destini furono "una sola moltitudine", perché nascevano tutti dall'invenzione dissociata e proliferante di una sola persona, l'anagrafico Fernando Pessoa, oscuro impiegato di una ditta di Lisbona , dove aveva l'incarico di scrivere lettere commerciali in inglese. E quelli che abbiamo citato sono solo i più importanti fra gli scrittori "inventati" da Pessoa: finora i suoi manoscritti hanno rivelato tracce e frammenti di ventiquattro autori».
Tabucchi parla della produzione letteraria pessoana come di "un baule pieno di gente" perché ci ha lasciato «i suoi molteplici spiriti ben impachettati in fascicoli manoscritti tenuti con lo spago e contrassegnati da firme diverse».
E' lo stesso poeta ad analizzare con estrema lucidità la sua eteronimia e a descriverla all'amico Adolfo Casais Monteiro nel 1935 in una lettera. Una caratteristica che inizia nell'infanzia e che persiste per tutta la vita:

Ebbi sempre, da bambino, la necessità di aumentare il mondo con personalità fittizie, sogni miei rigorosamente costruiti, visionati con chiarezza fotografica, capiti fin dentro le loro anime. Non avevo più di cinque anni, e , bimbo isolato e non desideroso se non di stare così, già mi accompagnavano alcune figure del mio sogno, un capitano Thibeaut, Chevalier de Pas e altri che ho dimenticato […]. Ciò sembra la semplice immaginazione infantile che si diverte con l'attribuire vita a fantocci e a bambole. Era però qualcosa di più: io non avevo bisogno di bambole per concepire intensamente quelle figure. Chiare e visibili nel mio sogno costante, realtà esattamente umane per me, qualunque fantoccio, poiché irreale, le aveva sciupate. Erano gente.

…Questa tendenza non passo con l'infanzia, si sviluppò nell'adolescenza, si radicò con la crescita, divenne alla fine la forma naturale del mio spirito. Oggi ormai non ho personalità: quanto in me ci può essere di umano, l'ho diviso tra gli autori vari della cui opera sono stato l'esecutore.sono oggi il punto di riunione di una piccola umanità solo mia.

…E così mi sono fatto, e ho propagato, vari amici e conoscenti che non sono mai esistiti, ma che ancora oggi, a quasi trent'anni di distanza, io ascolto, sento, vedo. Ripeto: ascolto, sento, vedo…E ne ho nostalgia

Come che sia, l'origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l'interno e io li vivo da solo con me stesso.

L'eteronimia è la manifestazione del labirinto di Pessoa, del vortice in cui si sente avvolto e sente che ogni uomo è avvolto. «L'eteronimia non è altro che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere» scrive Tabucchi.

Dio non ha unità,
come potrei averla io?
(da "Episodi")

Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un 'unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti.
(da "Appunti sparsi")

L'eteronimia è anche patologa e insieme terapia della solitudine che l'introspezione causa: l'Io esclude l'oggetto, il soggetto diventa oggetto di se stesso, distinguendosi e distanziandosi così da se stesso.

Mi sono moltiplicato per sentire,
per sentirmi, ho dovuto sentire tutto,
sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi,
e in ogni angolo della mia anima c'è un altare a un dio differente.
( da "Passaggio delle ore"- Poesie di Álvaro de Campos )

Ma l'eteronimia è anche qualcos'altro: è un tentativo di superare l'unicità dell'essere e la finitezza dell'uomo, è l'espressione della consapevolezza che la vita non basta, è un vago e inquietante interrogativo: se possono esserci più di una vita in una sola vita, se sono davvero il tempo e lo spazio che ci segmentano o se siamo noi che crediamo sia così, mentre forse esiste solo l'hic e il nunc, la persona nell'Istante, diversa da quella esistita nel momento prima, diversa da quella che esisterà nel momento dopo. Così Pessoa afferma una frastornante "verità":

Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso.
( da "Il libro dell'Inquietudine" )

Vengono ora presentate le figure eteronimiche maggiori, che compongono l'universo di Pessoa, ognuno dei quali è a sua volta un singolare mondo, con un proprio stile, un proprio modo di dibattere i grossi temi del pensiero e della poesia di Pessoa:

  • Alberto Caeiro: Alberto Caeiro da Silva, maestro di Fernando Pessoa e di Álvaro de Campos, morì precocemente di tubercolosi. Descritto come uomo biondo, pallido, con gli occhi azzurri, di media statura. In campagna scrisse l'intera sua opera, dai poemetti del "Guardador de Rebanhos" al breve diario del "Pastor Amoroso", e a Lisbona, dov'era nato, tornato solo per morire, scrisse le ultime poesie della raccolta "Poemas Inconjunctos". Tabucchi lo definisce «il fenomenologo, l'Occhio, l'olimpica e insieme tenebrosa ricognizione del mondo».
  • Álvaro de Campos: ingegnere navale, alto, coi capelli neri e lisci divisi da un lato, col monocolo, elegante e leggermente snob, tediato, ozioso e meditativo. Partì da un'estrema esperienza decadente per diventare poi a un tratto un esacerbato, geniale sperimentatore, maestro di ogni avanguardia. Ma la sua poesia conosce, dopo le fiammate avanguardiste, un curioso percorso: un'autoriflessività che lo lega alle esperienze contemporanee, un nichilismo doloroso e cinico. Così Tabucchi lo descrive: «il rovello gnoseologico, l'uomo che cerca "l'anello che non tiene" e che si arrende alla terribile "plausibilità" del reale».
  • Ricardo Reis: nato a Oporto, medico, ma senza mai esercitare la professione, materialista e sensista, imbevuto di classicismo e di ellenismo. Così scrive di lui Tabucchi: «Il monarchico in esilio è, col suo bizzarro neoclassicismo, l'ironica accettazione di un mondo incomprensibile e immutabile».