domenica 16 dicembre 2007

L'attualità dell'Etica Nicomachea di Aristotele

Circa la giustizia e l’ingiustizia dobbiamo considerare quali azioni esse riguardino, che genere di medietà è la giustizia, e quali sono gli estremi tra cui il giusto è medio. La nostra indagine deve seguire lo stesso metodo delle parti precedenti.
Noi, pertanto, vediamo che tutti intendono con "giustizia" la medesima disposizione, quella per cui gli uomini sono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono giustamente e vogliono le cose giuste; nel medesimo modo stanno le cose per quanto riguarda l’ingiustizia, disposizione per la quale gli uomini agiscono ingiustamente e vogliono le cose ingiuste.
Diamo anche noi per concessa questa prima definizione sommaria. In effetti, le cose non stanno allo stesso modo nel caso delle scienze e delle potenze e nel caso delle disposizioni. Si ritiene infatti che una potenza ed una scienza siano la medesima per gli oggetti contrari mentre la disposizione che è contraria ad un’altra non produce i risultati contrari, come, per esempio, partendo dalla salute non si compiono azioni ad essa contrarie, ma solo quelle salutari: diciamo, infatti, camminare "in modo sano" quando uno cammina come camminerebbe un uomo sano. Posto questo, spesso la disposizione contraria si riconosce dalla sua contraria, ma spesso le disposizioni si riconoscono da ciò cui esse ineriscono.
Se infatti è manifesta la buona costituzione fisica, anche la cattiva costituzione diventa manifesta, e dalle condizioni di buona costituzione fisica si inferisce la buona costituzione stessa, e da questa quelle. Se, infatti, la buona costituzione fisica consiste nella compattezza della carne, è necessario anche che la cattiva costituzione consista nella flaccidità della carne e che la condizione della buona costituzione sia quella che può produrre la compattezza nella carne. Ne segue che, per lo più, se i termini che indicano una disposizione e ciò cui essa inerisce sono usati con più significati, anche i loro contrari si usano con più significati; per esempio: se il termine "giusto" ha più significati, anche il termine "ingiusto" avrà più significati.
Sembra che i termini "giustizia" e "ingiustizia" abbiano più significati, ma che per l’affinità di questi significati la loro equivocità rimanga nascosta e non succeda come nel caso dei significati lontani tra loro che sono più visibili: per esempio (qui infatti la differenza è grande secondo l’aspetto esteriore) si chiama chiave, in modo equivoco, sia la clavicola degli animali, sia lo strumento con cui si chiudono le porte. Cerchiamo, dunque, di afferrare quanti significati ha il termine "uomo ingiusto". Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza.
Dunque, la nozione di "giusto" sarà quella di "ciò che è conforme alla legge" e "ciò che rispetta l’uguaglianza", [quella di "ingiusto" sarà di "ciò che è contro la legge" e di "ciò che non rispetta l’uguaglianza". Poiché l’ingiusto cerca di avere più degli altri, ciò avverrà in relazione con i beni: non con tutti, ma con quelli soggetti a buona e a cattiva fortuna, i quali sono sempre dei beni in sé e per sé, ma non sempre per un determinato individuo. Eppure sono questi i beni che gli uomini chiedono nelle loro preghiere e perseguono con le loro azioni: ma non si deve fare così, bensì gli uomini dovrebbero pregare che i beni in sé e per sé siano beni anche per loro, e poi scegliere quelli che sono beni per loro.
Tuttavia l’uomo ingiusto non sceglie sempre il più, ma anche il meno, nel caso delle cose che sono di per sé cattive. Ma poiché si ritiene che anche il male minore sia in qualche modo un bene, e che è del bene che si vuole avere di più degli altri, è per questo che l’ingiusto viene ritenuto uno che cerca di avere di più degli altri. È, poi, uno che non rispetta l’uguaglianza: questo termine abbraccia i due casi insieme ed è comune ad entrambi.
Poiché, come abbiamo detto, chi non rispetta la legge è ingiusto ed è giusto chi, invece, la rispetta, è chiaro che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto: infatti, ciò che è definito dalla legislazione è cosa conforme alla legge, e ciascuna delle cose così definite noi diciamo che è giusta. Ora, le leggi, in tutto ciò che prescrivono, mirano o alla comune utilità di tutti i cittadini o a quella dei migliori o di quelli che dominano per virtù, o in qualche altro modo del genere. Sicché, in uno dei sensi in cui usiamo il termine, chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti.
Ma la legge comanda di compiere anche le opere dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprio posto di combattimento, di non fuggire e di non gettare le armi, e quelle dell’uomo temperante, per esempio, di non commettere adulterio né violenza carnale, e quelle dell’uomo bonario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e così via analogamente anche per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre, e ciò rettamente se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta in fretta. Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro. Ed è per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né la stella del mattino siano altrettanto degne di ammirazione. E col proverbio diciamo: "Nella giustizia è compresa ogni virtù".
Ed è virtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza. Inoltre, è perfetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capaci di esercitarla nei rapporti con gli altri.
E per questo si pensa che abbia ragione il detto di Biante "il potere rivelerà l’uomo": chi esercita il potere, infatti, è già per ciò stesso in rapporto e in comunità con gli altri. Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche "bene degli altri", perché è diretta agli altri. Essa, infatti, fa ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è membro della comunità.
Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria malvagità sia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che esercita la virtù verso se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa, infatti, è un’impresa difficile. La virtù così determinata non è quindi una parte della virtù, ma la virtù nella sua completezza, e l’ingiustizia che le si contrappone non è una parte del vizio, ma il vizio nella sua completezza.
In che cosa, poi, differiscano la virtù e la giustizia così determinate è chiaro da quello che si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro essenza non è la stessa, bensì, in quanto è in relazione ad altro è giustizia, in quanto è una determinata disposizione in senso assoluto è virtù.

domenica 9 dicembre 2007

La guerra di successione

La crisi c'è, di nervi. Ho controllato la data di na­scita di Silvio Berlusconi: 29 settembre 1936. Ha 71 anni. L'aspettativa di vita di un maschio italiano di oggi supera i 78 anni (gli 84 per una donna, ammesso che riesca a scampare ai maschi, italiani e no). Benché Berlusconi pos­sieda più o meno 30 mila mi­liardi di vecchie lire, e vivere sotto una cifra tale non debba essere facile, bisogna imma­ginare, a parte gli auguri mi­gliori, che disponga almeno di una decina d'anni di vita e di attività.

Se invece vivesse, dicia­mo, come Mao Ze-dong, 83 anni pieni, gliene resterebbero al­tri 12. Dico Mao non a caso, co­me vedremo. Questi strampa­lati calcoli - che il signor B. perdonerà: lui è superstizioso, portano bene — mettono a fuoco la questione. Il centrode­stra ha, da alcuni anni, e più decisamente dopo la sconfitta nelle politiche scorse, un'uni­ca ragion d'essere: il dopo-Berlusconi, e più esattamente la guerra di successione a Ber­lusconi. Berlusconi, senza il quale quel centrodestra non sarebbe esistito (e purtroppo nemmeno una buona parte del centrosinistra) è oggi, con i suoi tredici anni di carriera ti­rata, un navigato uomo politi­co. Ma prova ancora, e magari riesce, a mostrarsi come un outsider, un prestato alla politica, uno di passaggio. Ha il suo tornaconto: una tasca per la politica, una per l'antipolitica. Perfino tutti quei soldi, po­veretto, ai quali nessuno rie­sce neanche per un momento a non pensare guardandolo, funzionano come un segno di estraneità: che cosa volete che gliene importi a lui della pen­sione da parlamentare, che per tanti bravi padri di fami­glia è un cosi fatale traguardo. Nel feudalesimo italiano, il centrosinistra soccombe ai valvassini, il centrodestra ai vescovi-conti. Berlusconi è riuscito a convincere della propria provvisorietà in poli­tica, oltre che se stesso, anche i suoi alleati, che hanno pa­zientemente fatto la loro par­te, e poi, un po' più impazien­ti, hanno cominciato a morde­re il freno e a immaginare il proprio posto in un futuro senza Berlusconi, che davano per scontato — gli intrusi della politica (è la traduzione esatta di outsider) infatti, come sono venuti, se ne andranno — e cui anzi hanno pensato di dare una spintarella. Così, a più riprese, sembrando Berlusconi sul punto del commiato e del congedo, i comandanti in se­conda (il primo è uno, i secon­di sono folla) hanno fatto la lo­ro corsa, mista di sortite e fre­nate e zigzag. Costoro, piccolo plotone, hanno affidato alla politica, chi più spericolata­mente, come Casini, chi più prudentemente, come Fini, le sorti della propria personale aspirazione alla successione. Ma Berlusconi non si toglieva di mezzo, e anche quando l'u­niversa politologia lo decreta­va spacciato - penultimo esempio, all'indomani delle elezioni del 2006, ultimo esempio, all'indomani della spallata mancata sulla Finan­ziaria- tornava a drizzarsi loro davanti, con quel sorriso stampato da omino del Brylcreem. L'ultima resurrezione, sulla gloria del predellino, mi­naccia il colpo di grazia agli al­leati in seconda. Già nei giorni precedenti, imploso il centro­sinistra, il centrodestra era esploso, e i suoi notabili dicevano ad alta voce quello che si dovrebbe solo sussurrare nel­la penombra di un bar minato di microspie. C'era, in quella brusca caduta dei freni inibi-tori, qualcosa di penoso, una indigestione di bocconi ama­ri, e qualcosa di maramaldo, la liquidazione senza benservito di un padronaggio troppo protratto.

È qui, direi, che i proci di Berlusconi hanno accusato il colpo, hanno sentito perduta la battaglia della pazienza e della manovra politica, e si so­no abbandonati alla biologia, cioè all'anagrafe. Con una rassegnazione disarmante, Fini l'ha detto: io ho vent'anni di meno. Vuol dire: si arrampichi pure sul predellino, faccia pu­re il suo appello plebiscitario, mi porti pure via il tappeto di sondaggi di sotto i piedi, ma fra vent'anni io avrò gli anni che lui ha oggi, e lui... Se non la politica, o la storia, sarà la natura a vendicarmi. Non è l'unico indizio della crucialità della questione ereditaria. Pren­dete la svelta adesione di Daniele Capezzone al Partito del Popolo pur mo' nato. Capezzone viene da un traumatico diseredamento, tra i Radicali italiani di Marco Pannella (78 anni, esattamente l'aspettati­va media di vita dei maschi italiani: lunga vita a Marco). Una fretta nel giovane erede (più o meno) designato, una ribel­lione al corso naturale delle cose nel vecchio capo, e la suc­cessione saltò. Se gli fuggisse dal petto lo stesso sospiro di Fini, Capezzone potrebbe vantare, rispetto a Berlusconi, una differenza non di 20, ma di 36 anni: neanche la metà. Au­guri a tutti. L'indizio più certo l'ha dato Giuliano Ferrara, evocando a proposito della mossa di Berlusconi - che ci abbia messo o no lo zampino - l'ordine di aprire il fuoco sul quartier generale impartito da Mao nel 1966, che scatenò la Rivoluzione Culturale. Ferra­ra non esclude nessuna frec­cia dal proprio arco, e a suo modo ha fatto molto per il Par­tito Democratico, e fa moltis­simo per il Partito del Popolo, ma poi, al momento di dichia­rarli marito e moglie, vedrà sfumare la cosa come al solito. (Si osservi di passaggio che tutte queste evocazioni di Lenin e di Mao e delle guardie rosse e, minimo minimo, di Eltsin sulla tolda del carro ar­mato, a un anticomunista co­me Berlusconi devono mette­re una vera allegria: vi ricorda­te il Martin Amis di "Koba il terribile", che non riusciva a spiegarsi, quanto a Stalin, il buonumore di transfughi e convertiti, "una risata e venti milioni di morti"). Bene: il Mao che lanciò la Rivoluzione Culturale aveva 73 anni, due più di Berlusconi oggi, era po­co meno che ostaggio di un apparato che si contendeva alla sua ombra l'eredità dogmati­ca e la successione al potere, e rovesciò le regole del gioco. Durò al potere, più o meno, al­tri dieci anni, sacrificò i milio­ni, e alla fine non potè impedi­re che i superstiti dentro l'ap­parato riprendessero il sopravvento: tuttavia si cavò le sue soddisfazioni. Il paragone "cinese" fissa la questione nei suoi termini essenziali: Berlu­sconi è tutt'altro che pronto a uscire di scena, battuto, o rassegnato a passare la mano. Ha davanti a sé ancora un buon tratto di strada da fare, divertendosi al gioco della politica e dell'antipolitica, re in proprio o Queen-maker (regina è la folla). Ma soprattutto ha una gran voglia di mandare gambe all'aria il tavolo della succes­sione naturale e ordinata. Mandare all'aria tutto, qual­che ora dopo che tutti gli alle­stivano il funerale politico, e senza nemmeno i conforti della religione, dev'essere una vera pacchia. La Rivoluzione culturale rispondeva all’avari­zia e al gusto del ripudio che anche sul letto di morte pren­de i veri sacerdoti del Potere. Nel nostro piccolo Berlusconi fa la stessa cosa con "la classe dirigente" del centrodestra, promuove al ruolo di Jiang-Qing la signora Brambilla — si licet - e vuoi cavarsi la soddi­sfazione di un estremo e au­tentico peronismo, lui solo sul balcone, e il popolo italiano, cioè il pubblico del Bagaglino, di sotto nella piazza. Non lo chiama "quartier generale", Berlusconi, la chiama "classe dirigente", ma il concetto è quello. Da una parte la classe dirigente e il "progetto": dal­l'altra lui e il popolo.

Vien quasi da dire che c'è una provvidenza. La meschi­nità di centrosinistra oscurava il vuoto pneumatico del centrodestra, tenuto assieme da due attese, quella melodram­matica della caduta di Prodi, e quella intrigante della giubilazione di Berlusconi. Prodi può sempre cadere, restano fior di professionisti dello sgambet­to: ma anche se succedesse, ora, la giubilazione politica di Berlusconi nel centrodestra è aggiornata a data da destinar­si. Devono confidare nell'anagrafe. La vita politica del cen­trodestra non era che una par­tita differita per la successione a Berlusconi—gli affari di un si­gnor Giulio Cesare da pugna­lare e commemorare a gara. Che non sia l'intera vita politi­ca italiana a trasformarsi in questo.

da La Repubblica del 26 novembre 2007, pag. 1


di Adriano Sofri