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martedì 31 marzo 2015

Ti lascio un messaggio

Ti ho chiamato ma non rispondevi. Dovevi essere fuori casa. No, il cellulare non è cosa per te. È che ti volevo chiedere di spiegarmi come era Cagliari prima della seconda guerra mondiale. Lo sai quanto sono fissato con la storia.

E anche di mio nonno, tuo padre. Ma mi piacerebbe che mi dicessi la verità. Non quella stucchevole storiella dei bombardamenti. Quella la so a memoria. No volevo sapere quant'era duro aver perso tutto e ripartire da zero. Come fece tuo babbo, con un sacco di figli piccoli, la casa distrutta e il lavoro da fabbro. 

Volevo sentirti parlare in cagliaritano. Un po', solo un po'. Hai visto, anche io lo parlo bene, mancai no ci bivu immoi bint'annus, in Casteddu. 

Poi ti volevo dire che quella volta che mi hai detto che in fondo anche io avevo trovato la mia strada, beh mi ha fatto piacere. Non siamo mai andati d'accordo noi. Ma non credo ti sia costato ammetterlo. Sapevi essere obiettivo, quando volevi.

No non mi manchi. E no, non mi sei di esempio in nulla. Ma sento, questo si, davvero, che avremmo potuto tutti e due fare di meglio, di più. 
Per te io sono sempre stato quello riuscito male. Per me tu qualcuno da prendere a piccole dosi, anzi, da evitare. E ci siamo riusciti bene, in questo.

È da un po' che sono padre anch'io. Sapessi quanto mi impegno ad essere diverso da te. Ogni tanto però mi sento parlare ed incredibilmente nelle mie parole sento un riflesso, un qualcosa che inevitabilmente mi riconduce a delle cose che sentivo dire a te. 
Tranquillo, io le dico meglio, e poi ascolto la risposta. Ma la preoccupazione per i figli è la stessa. E si, anche io sono convinto di avere ragione.

Si è fatto tardi, ed il tempo che avevi è finito. Ti lascio un messaggio. Anche se so che non lo ascolterai.


venerdì 29 agosto 2014

Saperci fare

Aveva avuto anche lei le sue possibilità.


Quando si era ammalata la madre, il padre sempre impegnato in quegli strani commerci con il continente le aveva lasciato per qualche tempo la responsabilità dell'emporio. Non che gli affari fossero andate male, anzi per la verità anche per la chiusura dell'emporio nel paese vicino le vendite erano aumentate. Ma il padre dopo neppure un anno preferì affiancarle il fratello Pietro, di diversi anni più giovane e poco più che adolescente. In poco tempo prese il suo posto. Pietro, diceva il padre, sorride ed è sempre gentile con i clienti. E poco male se alcuni si lamentassero con Ziu Diego che Pietro non facesse tanto caso alla puntualità nella consegna delle merci, o se la contabilità delle entrate ed uscite non fosse mai aggiornata. Il sorriso di Pietro, un buon bicchiere di vino ed un mezzo toscano mettevano quasi sempre le cose a posto. Era un discorso tra uomini alla fine, ed in questo lei, anche per l'educazione rigida impartita dalla madre, davvero non avrebbe mai potuto saperci fare.

Quando era in età da marito non aveva mostrato interesse per nessuno in particolare. E non che potessero mancare i pretendenti. Ziu Diego ero uno dei maggiorali del paese, produceva e vendeva bene il suo formaggio all'esercito, e non si era mai tirato indietro da aiutare qualcuno in difficoltà. L'emporio ed altre terre messe a vigna oltre il fiume ne facevano il secondo uomo più ricco del paese dopo il conte, ed Anna evidentemente era ritenuta un ottimo partito. Ma l'altezza (era più alta del padre e del fratello che pure erano assai più alti della media e di molto la più alta tra le donne in paese), la corporatura atletica ed una espressione sempre severa sul viso le tenevano a distanza i pretendenti. Alla fine Ziu Diego, vedendo che aveva oltrepassato i 25 anni senza dare nessun segnale particolare, aveva scelto per lei Antonio Coiana. Di molto più anziano di lei, vedovo ma senza figli, Antonio era il suo spedizioniere, persona che conosceva da bambino. Era un eccezionale cacciatore e uomo dai modi un po' bruschi ma onesto ed infaticabile lavoratore. Sarebbe potuto andar bene per Anna. E anche quando glielo comunicò, alla vigilia di Pasqua, Anna non commentò neppure. Disse solo "Quando lo dovrei sposare". Avuta la risposta, si informò brevemente dalla zia e le serve di casa sul carattere di Antonio  al di fuori del lavoro, e saputolo uomo irreprensibile e timorato di Dio, si mise l'animo in pace. E così fu anche per lei una brutta notizia il naufragio del bastimento che portava, tra gli altri, Antonio Coiana di ritorno da una proficua vendita a Napoli. Certo non mise il lutto, ma da quel momento fu considerata da tutti un po' una mezza vedova. Insomma, se si fosse sposata prima magari la disgrazia non le sarebbe toccata. Ed in effetti se solo avesse voluto..insomma in quel frangente non aveva mostrato di saperci fare.

Quando le era poi toccato accudire il padre, certo aveva fatto il suo dovere fino in fondo. Ziu Diego non si era ripreso da una rovinosa caduta da cavallo. Le ferite andarono in cancrena e l'amputazione di una gamba migliorò la situazione, ma siccome anche qualcosa in testa si doveva essere rotto ad Anna toccò amministrare i terreni della famiglia. Pietro era troppo impegnato nel lavoro all'emporio, la vendita dei formaggi e nella politica (era segretario del Fascio del paese) e veniva a trovarli poche volte al mese. Quando poi Pietro dopo la Guerra d'Abissinia divenne Potestà, alcuni in paese cominciarono ad arricchirsi un po' troppo rapidamente grazie a Pietro o "il capitano Cossu" come amava farsi chiamare lui. Lei, che si occupava solo della gestione dei terreni con i mezzadri, non approfittò di poter acquistare a due soldi i tanti piccoli appezzamenti dei contadini disperati che lasciavano il paese per cercare un futuro migliore al sud, nelle miniere di carbone.  Certo approfittare delle disgrazie altrui non è bello però forse un altra persona (Pietro per esempio) avrebbe dimostrato di saperci fare.

Quando poi Ziu Diego morì, alla fine di settembre del '43, fu sola a seppellire il padre. Il figlio di Pietro, Diego Maria, era un bambino. Pietro, che aveva combattuto in Africa, era forse prigioniero degli inglesi. Certo Anna aveva dato una mano all'emporio oltre che badare ai terreni ed al nipote, rimasto orfano di madre quasi nello stesso periodo. Ma Tittu, come era chiamato in casa tuo nonno Diego, era un ragazzino difficile da gestire, che si metteva spesso nei guai. E la zia dovette spesso mettere a tacere chi aveva voglia di fargliela pagare a suon di banconote da 500 lire. Quando poi divenne padre aveva 17 anni, tua nonna 15. E così a Zia Anna le toccò da fare da balia anche a me, al figlio del nipote, oltre al lavoro all'emporio ed amministrare i possedimenti. Certo che per complicarsi la vita, aveva dimostrato di saperci fare.

Quando poi si seppe che Pietro era morto di vaiolo, tutto passò praticamente sulle sue spalle. Zia Anna era forte, severa, io me la ricordo ..roba di mani che aveva. Tuo nonno quando fu arrestato e poi ingiustamente condannato all'ergastolo per quel fatto che sai dopo qualche anno si ammalò. Io me lo ricordo appena a mio babbo, figurati. E insomma tua zia Anna così passò il resto della vita: tra carceri, lavoro all'emporio e amministrare i terreni. Poi però i terreni li vendette per comprare quegli appartamenti a Cagliari che abbiamo noi oggi. Certo magari ci avrebbe potuto comprare un palazzo intero invece che solo  otto  appartamenti..non è che con gli affari ci sapesse fare. 
Anche l'emporio per esempio..ma te l'immagini se invece del distributore di benzina ed il tabacchino ci avesse fatto un bel negozio di alimentari? 
"Sarebbe fallito come quello di Giovanni Soddu" 
Ma cosa ne sai tu? Voi donne cosa ne capite di soldi.. Dai sparecchia in fretta e fammi un buon caffè che al bar c'è la partita e devo andare..
"Lo so che vai là per il video poker" 
Vedi in questo sei come zia Anna. Ti poni troppi problemi figlia mia. Nella vita bisogna saperci fare.




  

mercoledì 30 aprile 2014

Il piacere del sapere.

Da Internazionale, articolo di Tullio De Mauro
Meglio un diploma in un istituto professionale industriale o commerciale che una laurea in storia dell’arte: parole di Barack Obama durante un incontro in uno stabilimento della General Electric in Wisconsin lo scorso 30 gennaio.
Peter Weber (su The Week del 19 febbraio) ricostruisce il putiferio che si è scatenato. Obama è stato tempestato di email di protesta. E alla fine ha dovuto smentirsi o meglio spiegare che era stato frainteso, che lui la storia dell’arte la ama fin da ragazzo e che, però, per molti ragazzi sarebbe meglio un buon lavoro nell’industria o nel commercio, e riflettere meglio sulla laurea da scegliere piuttosto che scegliere un incerto futuro come storico dell’arte. Nuove proteste che hanno rilanciato la questione della convenienza degli studi universitari negli Stati Uniti.
...
Traduco: pensa a farti una posizione. Al museo potrai sempre dire di fronte ad un quadro:"Ma questo lo so fare anch'io"!
Parto da questo presupposto per commentare questa estremamente infelice uscita di Obama. Il presidente americano parte da un assunto che io contesto alla radice: uno studia per diventare ricco. La cosa, intendiamoci, non è relegata al di là dell'Atlantico. Il mito di "su fizzu dottori" ce l'abbiamo ben chiaro anche qui nell'isoletta.
E' il connubio "sapere-ricchezza materiale" la prima e più  importante motivazione che ci spinge a studiare. La cosa è radicata, direi ovvia. La cosa è però, per me, profondamente sbagliata. Specialmente se si associa maliziosamente alle materie umanistiche, aggregate ad un tipo di sapere "meno utile" o meglio che difficilmente porta alla ricchezza. E dunque alla felicità, che scaturisce dal piacere di una vita agiata.
Ecco, è in questa sorta di trinità "sapere-ricchezza-piacere" che si può riassumere questa nostra malata (secondo me) concezione  di "sapere" ai giorni nostri.
Ammetto, sono prevenuto. Vengo, orgogliosamente, da studi umanistici.
Anche, ma vorrei dire soprattutto, ho compreso che il sapere è anche un piacere. Leggere una epigrafe e comprenderne il significato, versare su un piatto di oggi una salsa a base di pesce e pensare al "garum", indovinare la presenza di un nuraghe guardando una altura. Questo piacere forse non sarà paragonabile a quello di guidare un Suv di 5 metri, stappare una bottiglia di wisky di 50 anni, viaggiare in first class.
Ma il mio è un piacere che può accadere in qualunque momento. Che non contempla un vestiario griffato, una occasione speciale, un pubblico di colleghi invidiosi.

Ed in fin dei conti, non sempre meno intenso.

domenica 30 marzo 2014

Stressare il concetto

E' passato un mese e mezzo dalle elezioni regionali in Sardegna. Per me, le uniche elezioni che valgono.
Mi ci è voluto un bel po' per farmene una ragione.

Ma la verità è una sola: la mia candidata ha perso, rovinosamente. Il 10% dell'elettorato è stato un risultato estremamente deludente. Eppure si partiva da premesse diverse. La candidata del PD inquisita era messa da parte obtorto collo grazie al solito editto di oltre Tirreno. I 5 stelle non riuscivano a mettere in campo una lista, la destra arrivava alle elezioni divisa e con un numero pazzesco di consiglieri indagati.
Insomma, c'era il tanto per pensare magari non ad una affermazione vincente, ma almeno ad un risultato tra il 15 e 20%. Arrivare in consiglio regionale, far vedere di che pasta si era fatti.

E invece nulla. Un anemico professore universitario, cugino nostrano di Monti il cui unico pregio è stato di avere un padre che ha scritto un grande libro 46 anni fa (che ho anche io, per la verità) è stato incredibilmente eletto con oltre il 40% dei voti. A ciò si aggiunga, consequentia mirabilis, che i voti dell'inguardabile candidato della destra, governatore uscente apostrofato "merda" dallo stesso Silvio B. non erano inferiori a quelli del centro sinistra, che vince le elezioni solo perché il suo candidato governatore ha preso più preferenze individuali.

Perché?
Perché non siamo un popolo, e men che meno il prototipo mal riuscito di una qualche regione autonoma.

Siamo Sardi per il pane carasau, per il mirto, per il vino "di proprietà", perché il mare più bello è il nostro, perché "noi non siamo meridionali", perché "lo diceva anche Fabrizio De André che la Sardegna è il paradiso".


Siamo Sardi  perché la bandiera dei 4 mori è sempre dappertutto (e molto spesso a sproposito), perché parliamo sardo ma ce ne vergogniamo, perché per sembrare integrati parliamo con l'accento di Milano, o di Torino, o di Genova (con risultati spesso imbarazzanti), perché Gramsci e Berlinguer e Zola... sono stati quello che sono stati  fuori dalla Sardegna.


Siamo Sardi perché non riusciamo ad immaginare un campionato di calcio che si giochi tra Cagliari, Sassari Olbia e Alghero, perché i "continentali" li reputiamo spesso bizzarri ma vogliamo essere come loro, perché andiamo in vacanza a Ibiza dove tutto è cementificato fino a dentro l'acqua del mare, che diciamo tranquillamente che fa cagare, ma che "loro si che fanno turismo tutto l'anno".


Siamo Sardi perché siamo invidiosi fino al midollo del nostro vicino, che bruceremmo casa nostra pur di bruciare la sua. Perché non compreremmo uno spillo ad un sassarese ma lo compreremmo arrugginito da uno di Parma. Perché "tu non puoi capire la nostalgia" ma poi "in Sardegna non ci torno, si vive di merda, il problema siamo noi (voi)".


Siamo Sardi perché non abbiamo speranze e quando qualcuno ci offre una soluzione cerchiamo il raggiro, il trabocchetto, la fregatura. Perché dentro di noi siamo stati nuragici fregati dai fenici fregati dai cartaginesi fregati dai romani fregati dai bizantini fregati dai pisani fregati dagli aragonesi fregati dai piemontesi fregati dagli italiani fregati dall'Europa.


Siamo Sardi perché la malinconia è dentro di noi, il nostro carnevale fa paura, le nostre maschere fanno piangere i bambini. Il suono della nostra musica viene dai flauti dei pastori di 4000 anni fa e non è mai cambiata. E' armonica, ritmica, ma sempre uguale. I nostri vestiti sono elegantissimi, ma  il nero è il colore dominante. Perché da noi la convivialità vuol dire bere fino a perdere conoscenza, e se non bevi sei un caghino, e se non reggi l'alcool sei un mezzo caghino, e se sei un caghino..non sei sardo.


In ultimo, siamo Sardi perché da soli non sapremo mai governarci, come diceva Carlo Quinto. Certo, siamo abilissimi in ammazzarci in faide che se ci hanno protetto dall'instaurarsi di criminalità organizzata (fino ad oggi) ci hanno reso violenti ed infidi tra noi dai tempi dei tempi.
In quest'ambito, letteralmente, non sappiamo fare un cazzo, in speci ein politica. Un esempio?
Il consigliere UDC Giorgio Oppi – indagato per peculato nell’inchiesta sull’abuso dei soldi ai gruppi consiliari – è stato appena eletto nel collegio dei questori del Consiglio Regionale con incarichi di verifica dell’attività del suddetto consiglio e gestione proprio dei fondi consiliari. C'è un bel detto in campidanese: fidai puddas a marxiani, consegnare le galline alla volpe.
Ecco, questo per me è stressare il concetto. Noi da soli non sappiamo governarci.

A Dublino in un parco c'è una roccia dove c'è scritto
In the darkness of despair we saw a vision,
We lit the light of hope and it was not extinguished.
In the desert of discouragement we saw a vision.
We planted the tree of valour and it blossomed.
In the winter of bondage we saw a vision.
We melted the snow of lethargy and the river of resurrection flowed from it.
We sent our vision aswim like a swan on the river. The vision became a reality.
Winter became summer. Bondage became freedom and this we left to you as your inheritance.
O generations of freedom remember us, the generations of the vision.

Io faccio parte, per certo, della generazione dei nonni dei visionari. Malasorti.

lunedì 3 febbraio 2014

Voterò Michela Murgia

Voterò Michela Murgia perché è antipatica. Mi sono seccato di vedere il politico sorridente e piacione, che dice tutto ed il suo contrario, che è con Confindustria ma anche con i Sindacati, che è con la chiesa Cattolica ma strizza l'occhio al mondo gay. Nella vita devi decidere da che parte stare. Quando la sento parlare, cosa pensa mi arriva chiaro e diretto.

Voterò Michela Murgia perché è brutta. Mi sono stufato di vedere nonnini che si rifanno l'impianto ai capelli più e più volte, con la faccia tesa e le rughe piallate. Di seni e culi finti, basta. Non la voto perché sogno di portarmela a letto. La voto perché dice cose sensate e credo le porterà avanti.


Voterò Michela Murgia perché non sa chi è il capitano del Cagliari. Perché io ai tuttologi non ci ho mai creduto. E non mi importa che lo sappia. Lei e la sua giunta debbono governare, e bene, il posto dove vivo. Allo stadio che vadano i tifosi. Come me.


Voterò Michela Murgia perché ha fatto cose che sono il contrario di cercare il consenso. E' andata nel Sulcis a dire che i combustibili fossili non hanno futuro. Se perdesse le elezioni solo per un voto e quel voto fosse nel Sulcis, credo non se pentirebbe. Ed io con lei.

Voterò Michela Murgia perché non dà spazio all'immaginazione. Mi ha detto prima chi saranno i suoi assessori. Niente teatrini, tutti ci hanno messo la faccia, molti di loro non sono politici né lo sono mai stati, tutti sono competenti per i posti ai quali sono stati designati.


Voterò Michela Murgia perché è una presuntuosa. Si. è presuntuosa perché non crede che in Sardegna non abbiamo bisogno della star continentale con il suo codazzo di leccaculi locali. Non ha certo chiamato Silvio o Renzie, non ha neppure strizzato l'occhio a Grillo. Va per la sua strada perché è conscia che chi la voterà non sopporta che in Sardegna abbiamo sempre bisogno dell'aiuto da fuori. Presuntuosa, vero?


Voterò Michela Murgia perché è donna. Non mi è mai successo prima, e lo trovo francamente assurdo. Non sono misogino, semplicemente non mi era mai capitato. Ripensandoci, le quote rosa sono una stronzata. Non gliel'ho chiesto, ma credo che lei la pensi come me, su questo.


Ma soprattutto voterò Michela Murgia perché devo. Lo devo innanzitutto al diritto che ho di vivere nel posto dove sono nato, un privilegio che noi Sardi capiamo appieno quando andiamo via.


domenica 19 maggio 2013

È giocare che è tutto.

Quest'anno ho scritto poco di calcio. 

Alla mia squadra è successo davvero di tutto. Però malgrado tutto siamo ancora qua, senza stadio, con pochi soldi, coi ragazzini del 94 e 95 della primavera,con gli stranieri presi in squadre mai sentite, con gente che stava in serie B come Sau. 

Eppure ce l'abbiamo fatta. E alla grande. Sono le cose come questa che mi fanno innamorare ogni anno del calcio.

Perché non è vero che vincere è tutto come è infatti scritto nel retro della maglia della squadra che pur di vincere tutto è stata mandata in B. 

È giocare che è tutto. 
E allora viva il gioco.
E viva il cagliari calcio.



martedì 11 dicembre 2012

La nostra ignoranza è la causa del disprezzo verso tutto ciò che è nostro

Sabato scorso sono stato invitato da un amico a vedere il prof. Gigi Sanna, che ha tenuto una bella conferenza all'interno della manifestazione Emmas.

Indubbiamente l'argomento è più che affascinante. I nuragici scrivevano, ho le prove, dice Sanna. Segue un'ora ininterrotta di  analisi di dati, foto, correlazioni con le lingue di ceppo semitico che si parlavano nel bacino del mediterraneo oltre 3000 anni fa.


Decine di iscrizioni, foto, spiegazioni meticolose. Ma anche tanta rabbia per non essere stato ascoltato negli ambienti accademici, per non avere i fondi necessari per poter affrontare seriamente campagne di scavi, per non poter avere accesso ad archivi, a dati che potrebbero magari anche smentire la teoria, ma almeno provare in maniera metodica e con fondi certi a studiare quella che potrebbe essere una "scoperta" paragonabile a quella dei nuraghi.


Scrive Gianfranco Pintore
"La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna."

Personalmente la vedo in maniera leggermente diversa da Pintore: l'Irlanda divenne una repubblica indipendente pur essendo un paese estremamente povero, ma non nego che nessi tra sviluppo economico e presa di coscienza indipendentista ci siano, e siano stati il fattore scatenante nella creazione di una nazione, gli Stati Uniti sono in questo l'esempio più lampante.

Ciò che mi spaventa è l'indifferenza, colossale, che in Sardegna si ha su questi aspetti che potrebbero portare, oltre che conoscenza, anche significative ricadute economiche. Ma forse a noi interessano maggiormente i Vikinghi, troviamo più affascinante Stonhenge.Come ad altri, anche a me viene in mente in questi casi la nota frase di Simon Mossa,  che riferendosi alla storia della Sardegna, affermava che "la nostra ignoranza è la causa del disprezzo verso tutto ciò che è nostro".  

L'ignoranza e l'indifferenza, unite ad una certa dose di invidia. Queste sono le malattie di cui soffriamo noi Sardi. Guarendo da queste, forse, potremo aspirare anche al "resto".



domenica 4 novembre 2012

il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione

Adriano Sofri ha recentemente scritto a proposito di due notizie apparentemente tra loro distanti: l'assoluzione  di Niki Vendola e l'annunciato licenziamento di 19 metalmeccanici di Pomigliano.
Sono due notizie che parlano di una Italia dove le regole vengono ridotte a carta straccia, dove l'attacco alla legalità o la noncuranza della legge è la cifra sia del potere politico che di quello economico.


Eppure i due fatti sono figli della stessa matrice: il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione. Vendola ha agito come si agisce nelle democrazie occidentali (quelle vere). Si sarebbe dimesso perchè una regola non scritta ma comunemente accettata impone alla persona per bene di farlo. Per la sua rispettabilità e per quella dell'istituzione che rappresenta.
Ed è incontestabilmente una eccezione.


L'azienda osannata da tanti politici dalla fedina penale più o meno immacolata che ignora lo statuto dei lavoratori è l'ennesimo esempio che il potere economico ha a sua volta una malsana idea del diritto, che combacia con quello del più forte, o ricco, in barba al rispetto delle leggi.

Ecco, quando vengono a mancare i pilastri di questa rispettabilità intesa come stato, il concetto stesso di stato vacilla.E l'Italia si trova, oramai da troppo tempo, in questa oscena situazione.

Vale davvero la pena per i Sardi di considerare questa come la nazione dove è meglio vivere?


martedì 16 ottobre 2012

Sulcis come la Ruhr? Certo, se i nostri politici fossero tedeschi..o sardi?


Premessa
Per chi come me non è del Sulcis, e l'ha frequentato se non per turismo, è forse troppo facile e presuntuoso parlare della più complessa ed ampia realtà di interazione dell'industria con società e territorio presente in Sardegna. Mi rendo conto che bisogna nascerci, respirarne l'aria e riconoscerne i rumori, per capire davvero cosa vuol dire una realtà più vicina alla Germania di un tempo, o forse oggi più al Brasile o la Cina o il Sud Africa, piuttosto che al vicino Campidano, le nostre città costiere o alla costa della Gallura, in cui tanti sulcitani si sono trasferiti in questi ultimi 20 anni.
Perciò io scriverò da chi capisce solo in parte quello che si prova oggi nel Sulcis. Ne sono lontano geograficamente come l'Inghilterra lo è dalla Nuova Zelanda, se la Sardegna fosse il mondo (ed in fondo per me lo è). 
Ne sono lontano perché non ho parenti che hanno lavorato in miniera, perché ho sempre lavorato nei servizi invece che nell'industria primaria. Mi limiterò a fare delle considerazioni su come ci siano delle cose accadute in un "altrove" non troppo lontano né nel tempo né nello spazio che potrebbero, dovrebbero, far riflettere una classe politica buona solo ad andare a Roma col cappello in mano, a dei sindacalisti capaci ad organizzare cortei e manifestazioni ma meno, molto meno, a dare soluzioni diverse ai problemi che conoscono, a dei lavoratori che usano l'arma della disperazione perché con il lavoro ed i sacrifici non è servito a nulla.

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Partirò da un presupposto: sono certo che chi vive nel Sulcis è convinto che casa sua si trovi nel luogo più bello del mondo. E' una cosa comune a noi Sardi. Uno di Tonara potrà riconoscere che il mare di Cala Gonone è bellissimo, ma non lo scambierebbe col bosco di Santu Giaccu. 
E' il riconoscimento di questo presupposto la base di tutto il resto.

Il territorio del Sulcis è stato sfruttato come nessun altro in Sardegna. E' venuto il tempo in cui chi ci vive tragga il suo sostentamento non dallo sfruttamento ma dalla sua  valorizzazione. Come fare non è né semplice né immediato, e necessita di un cambio di mentalità non solo da parte dei politici ma anche e soprattutto degli abitanti del Sulcis.

L'industria pesante in Europa sta scomparendo. Di questo però nel Sulcis pare non se ne siano accorti. Non se ne sono accorti in primis i lavoratori che fanno manifestazioni per chiedere allo stato (che poi saremmo anche noi, loro conterranei) soldi, soldi, e poi soldi. Una cosa normale, si dirà, nel momento in cui c'è una crisi. Bene, ma questa non è una crisi temporanea ma strutturale. 
Ma siccome siamo nostro malgrado in Italia, il paese dell'eterna emergenza, ciò viene vissuto non come una situazione da affrontarsi in maniera strutturale, ma con soluzioni temporanee ma costose.

Il Sulcis non è l'unica area italiana con importanti dismissioni industriali ma possiede, questo oggettivamente, un territorio eccezionalmente ricco in termini naturalistici. Inoltre l'area non si trova in una remota regione dell'Indonesia, ma in un'area a un'ora d'auto da un aeroporto internazionale, che lo collegherebbe con i principali aeroporti italiani ed europei in un due ore o poco più. Questo consente realisticamente di poter raggiungere il Sulcis in 3 ore anche da aeree come Londra, Parigi, Francoforte, Stoccolma o Madrid. 

Ma come far diventare un'area apparentemente con poco appeal turistico meta di discreti flussi di visitatori, che non vuol dire inglesi in maglietta ed infradito ma anche turismo naturalistico, culturale, congressuale?
- Con un significativo investimento in termini di bonifiche e riutilizzo di quanto esistente
- Con una dettagliato percorso di riconversione delle risorse 
- Con una importante promozione turistica

Niente di nuovo, urlerà il sindacalista dal suo megafono.
Niente di nuovo, dirà il politico sui microfoni dell'emittente locale.
Niente di nuovo, tossirà l'operaio mentre si accende una sigaretta.
Ma allora, perché si continuano a chiedere soldi (molti) per mantenere posti di lavoro (sempre di meno)?

Più di vent'anni fa questa stessa domanda fu fatta dai politici della Ruhr, in Germania.
Ma il loro problema aveva dimensioni diverse: 6000 ettari di aree industriali dismesse in una zona popolata da oltre 5 milioni di abitanti. 
Pertanto con proporzioni enormemente maggiori.
Eppure oggi i risultati sono visibili, anche senza visitare di persona i luoghi.

Una gigantesca ferriera, la Meiderich, è diventata un parco, il Landschaftspark, 180 ettari dove "natura, patrimonio industriale e di un impianto di illuminazione affascinante si combinano per creare un parco diverso da qualsiasi altro al mondo. I nuovi spazi verdi e le cattedrali antiche dell'industria vi invitano, sia da soli o come parte di una visita guidata, per esplorare il sito che, nel corso di più di dieci anni, è stato rivisto per creare un nuovo stile di multi -funzione di parco." si legge nella presentazione ufficiale online. 

Il gasometro di Oberhausen  ha subito una riconversione che lo ha reso una location per eventi staordinaria: "una sala circolare con una superficie di più di 3000 metri quadrati si apre al visitatore. Due scale in acciaio portano sul disco al centro del quale è stato installato un palco rialzato con un diametro di 20 m. Parti della struttura di supporto è diventato uno stand di 500 posti. In totale, il Gasometro ha pertanto un settore che può essere utilizzato per eventi che coprono più di 7000 metri quadrati." 

La miniera di Zollverein, oggi patrimonio Unesco, è una fondazione privata che gestisce un business center che fornisce servizi alle imprese e persino un'area con lo shop. Guardando i volti del loro staff si vedono volti con ben più di 50 primavere alle spalle, segno che evidentemente hanno riassorbito personale della miniera. Al suo interno il Red Dot , uno straordinario museo dedicato al design.

La rifondazione della Ruhr però non è stata soltanto una operazione di riconversione industriale a fini di servizi per le imprese , ma uno straordinario movimento che ha permeato fortemente la cultura dapprima di quell'area, rilanciandola nellla realtà tedesca ed infine europea. Tant'è che 2010 la Ruhr è diventata una capitale europea della cultura, con una serie di eventi lunghi un anno che hanno portato nell'area 950.000 visitatori.

Inoltre, sempre dal punto di vista culturale, il lavoro nell'industria è il soggetto del museo Dasa di Dortmund che è  il più grande del mondo proprio nelle esposizioni dei macchinari industriali, con aree di attrazioni per visitatori di tutte le età. 
Cultura che è ancora protagonista nel Ruhr Museum, che ha visto più di 500.000 visitatori nel suo primo anno di attività sia alla collezione permanente di opere sia alle mostre temporanee del museo.

Inoltre sono state costruite piste ciclabili per 770 km, ricostruiti porti come quello fluviale di Duisburg, completamente riprogettato da Norman Foster come borgo residenziale.  

Un'area del genere, così lontana dalla nostra immagine del turismo, ha invece un efficiente ente di promozione turistica, con un sito bilingue completo di sistema di prenotazione per gli hotel delle varie aree di quella regione.

Un particolare tutt'altro che irrilevante è che questo progetto nasce nel periodo per di più dove quel paese aveva a che vedere con la maggiore opera di ricostruzione dalla fine della seconda guerra mondiale, ovvero inglobare l'ex Germania comunista, pertanto con una particolare attenzione alle spese.

Seppure con un'economia non a livello di altre tra le più ricche della Germania, la Ruhr è l'esempio migliore che mi possa venire in mente da proporre ad un Sulcitano.
Lo stato ha creduto reinvestire in ambiente e lavoro avrebbe dato i suoi frutti.  Un ottimo esempio, ancora, è quello di Karl Ganser  che ha curato tutto il progetto della riqualificazione dello Emscher Park , dove ha sostanzialmente osservato solo due parametri: creare lavoro e riqualificare il territorio. 

Creare lavoro e riqualificare il territorio: qualcuno, altrove, ci è riuscito.
Io so dentro di me che noi Sardi non siamo inferiori a nessuno.


E questo dovrebbe a mio avviso spingere i cittadini del Sulcis ad eleggere loro i rappresentanti in base a questi parametri quando sarà il momento di votare i loro rappresentanti. Diffidare del tale dall'accento milanese e con l'amico russo, o il solito politico romano col suo codazzo di sindacalisti locali. Dare ascolto a chi ti parla di progetti concreti, percorsi percorribili, meglio se parla la lingua che comprendi fino in fondo.

Cent' anni fa il Sulcis ha portato benessere e sviluppo, sociale ed economico, a tutta la Sardegna. Credo davvero che solo chi ci vive ora sia in grado di replicare quanto fatto allora.


venerdì 14 settembre 2012

Trasporti e crisi: perché i conti possono tornare a sorridere


I dati relativi ai trasporti da e per la Sardegna, da qualunque parte li si guardi, dicono 2 cose:  il traffico aereo cresce mentre quello marittimo scende.
Se questi dati fossero analizzati così senza un ulteriore analisi, verrebbe da scrivere la solita "veemente protesta contro i ladri di Tirrenia" (si pronuncia Onorato). 
Non che questo non sia vero, ma anche per gli aspetti relativi agli aeroporti, occorre fare dei distinguo.
Se infatti l'aeroporto di Olbia ha capitale fondamentalmente privato, quelli di Alghero ed Cagliari sono pubblici e con bilanci pesantemente in rosso. Tanto per dare un'idea, questi aeroporti senza un fiume di denaro pubblico fallirebbero immediatamente.
Solo l'aeroporto di Alghero ha recepito nel 2010 per legge regionale ben 10 milioni, ma il dissesto finanziario di quell'aeroporto ha radici antiche ed è figlio di una gestione che ha preferito dopare il mercato con contributi milionari a Ryanair, il tutto evidentemente sulle spalle dei soliti contribuenti.

Insomma, la situazione marittima è pessima, con un calo del 23% nei porti del nord Sardegna in termini di passeggeri. Quella aerea è buona ma "dopata". 

Ma allora che fare: l'ennesima manifestazione a Roma con fischietti e bandiere o riprendere possesso del proprio destino? Evidentemente propendo per la seconda ipotesi.
E allora, perché semplicemente non copiare quanto si fa all'estero?
E' sufficiente prendere un traghetto da Santa Teresa ed andare in Francia dove se vai in aereo o in nave devi sapere che..

- Lo stato decide delle tasse aeroportuali, le più alte d'europa Se aprite il link e fate caso l'unico scalo dove le tasse non sono alte è Beauvais che sta a 80 Km da Parigi ed è stato scelto per far atterrare i low cost. Il messaggio è chiaro: vuoi atterrare vicino alle aree più importanti? Paga di più. Ti interessa spendere meno? L'aeroporto non è centrale.
Perché in Sardegna non si eliminano i vettori low cost dai tre principali scali e li si dirotta ad Oristano (peraltro ad un ora di macchina da Cagliari e Nuoro e poco più da Sassari)?
1) Si aprirebbe una nuova prospettiva occupazionale e si darebbe una importante occasione di sviluppo al turismo del centro Sardegna.
2) Contestualmente, si ripianerebbe in breve tempo le perdite create dalla scellerata politica di sovvenzione a Ryanair (che in Francia evidentemente non riceve contributi). 

- la compagnia aerea francese, Air france è una delle poche in salute del mondo, ha una importante componente statale (quasi il 19%, ma è stata anche del 54%) che le ha consentito di acquistare prima KLM e poi una quota consistente di Alitalia.
In Sardegna una compagnia aerea la abbiamo (è peraltro la prima azienda sarda privata per tasse pagate), ed ha prodotto utile per quasi quarant'anni prima di inglobare idrovore di denaro quali Eurofly ed Air Italy. Si potrebbe fare con essa (in piccolo) lo stesso procedimento che Air France ha avuto in Francia: 
1) presa una partecipazione importante nella newco (di cui peraltro in passato l'azionista di Meridiana aveva già parlato con l'attuale presidente della regione Sardegna), organizzare il traffico da e per l'Italia con tariffe calmierate ed identiche a quelle del trasporto ferroviario, ma che hanno traffico in maniera naturale (es. Roma-Cagliari). Si genera utile mantenendo gli standard di servizio e le frequenze nel periodo invernale e si aumentano le frequenze e gli aeroporti serviti nella stagione estiva. L'Alitalia ha interessi minimi in Sardegna, ed un accordo di Code-Share (un accordo tra linee aeree nel quale un vettore commercializza un servizio e pone il suo codice sui voli di un altro vettore) risolverebbe facilmente il problema commerciale con quel vettore.
2) apertura al mercato per le destinazioni extra Italia con controllo degli slot (permessi di atterraggio) che consentano reciprocità con gli altri paesi. Per es.: se si autorizza un vettore Inglese a operare una tratta da Alghero a Londra deve essere dato uno slot nel medesimo aeroporto e con orario analogo al vettore sardo.
3) Se si lavora in Sardegna si debbono rispettare le nostre leggi: Ryanair infatti ha in Francia una presenza minima 

Per mare la situazione è paradossalmente persino più facile.
- il sistema portuale francese è sì privatizzato ma è sotto il controllo di un consiglio di sorveglianza dove vi è lo stato, le comunità territoriali (un ente statale via di mezzo tra il dipartimento e la regione) e la camera di commercio. E' sufficiente rendere i porti sardi amministrati analogamente da quelli francesi (pertanto focalizzando la gestione sull'interesse della collettività) ed evitare macroscopici conflitti di interesse come quello del porto di Olbia, il più grande della Sardegna e sostanzialmente in mano ad Onorato.  
- la regione detiene la Saremar, i cui bilanci sono in ordine  e che diverrebbe analogamente al vettore aereo il volano del trasporto marittimo. Sarebbe sufficiente che questa compagnia di navigazione si confrontasse contro una compagnia che è palesemente aiutata dallo stato italiano  sebbene operi con le tariffe che tutti conosciamo. La Tirrenia continua a percepire aiuti dallo stato italiano? La società di gestione dei porti applica solo a Tirrenia delle commissioni che vengono "girate" a Saremar che, garantendo come già fa ora tariffe inferiori a Tirrenia, nel breve termine la soppianterebbe nell'operatività delle tratte sulla Sardegna.

Insomma: basta operare nell'ambito del proprio interesse (nazionale). 
Copiare i francesi, che sono nell'unione europea proprio come noi, ma fanno quello che meglio credono.
Come d'incanto il deficit di bilancio regionale relativo al trasporto aereo diventa una voce di attivo (vd. tasse aeroportuali) ed una significativa risorsa occupazionale (i dipendenti di un nuovo aeroporto e l'indotto che esso genera/maggiori potenzialità per le strutture ricettive del centro Sardegna/aumento di dimensioni e dunque dipendenti del nostro vettore aereo), mentre per il traffico marittimo sarebbe sufficiente una regolamentazione che evitasse i conflitti di interesse (italiano) in cose che riguardano la Sardegna.

Si rischiano procedure di infrazione dell'antitrust europea? La risposta da dare è: si, e allora?
Conviene  come ci ha insegnato un ex presidente italiano.
Conviene  come ci insegna un paese che vuole che le proprie leggi siano rispettate
Conviene a noi sardi, che potremmo avere solo benefici da una situazione che, per una volta, si decide di forzare. Perché conviene pagare una multa di un milione di euro e farne guadagnare dal proprio Stato a decine. 

Se hai letto questo articolo non ti saranno sfuggiti due presupposti non scritti.
1) I governanti sardi fanno gli interessi dei Sardi.
2) I Sardi hanno governanti che hanno un potere di sovranità piena nell'ambito economico.  
Hai ragione, forse è il caso di "scendere dalla macchina", come nella barzelletta di Benito Urgu. Eppure io in quella macchina ci vorrei davvero salire e guidare, guidare, guidare. Prossima fermata? Soberania.

giovedì 16 agosto 2012

Un po' Sardi e un po' no. Forse un po' troppo comodo.

In questa foto, che ho scattato dallo schermo del televisore, a mio avviso si evince uno spaccato del giovane sardo di oggi. Infatti chi non è italiano penserebbe che quei due ragazzi tifano due nazioni diverse, confondendo magari la bandiera sarda con quella georgiana.
Certo, quei ragazzi tifano un atleta italiano. In fin dei conti sono italiani: "linguisticamente", "culturalmente", "politicamente". Ma sono anche sardi, per gli stessi motivi (mi permetto tutt'al più di aggiungere "geograficamente").

§ Linguisticamente il giovane sardo capisce la sua lingua quasi sempre, ma sempre meno la parla. La tradizione orale e non scritta è stata una disgrazia per i nuragici, dei quali sapremmo oggi ben di più se essi avessero avuto una qualche forma di scrittura. Oggi non è molto diverso dal tempo del nuraghe, anzi. La progressiva italianizzazione figlia della TV ha reso l'uso della lingua dei nostri padri marginale. Già afflitti da un   falso ed ingiustificato (eppure atavico) sentimento di inferiorità rispetto allo straniero, i sardi come noto spesso provano pudore (per non dire vergogna) a parlare la propria lingua al di fuori di un contesto familiare o strettamente circoscritto al paese. Per il resto del mondo essi sono italiani. Ne parlano la lingua, appunto.
§ Culturalmente quei giovani sardi sono italiani. Ne conoscono storia (italiana appunto, non sarda), sanno degli Etruschi ma non dei sardi nuragici, di Scipione l'africano, ma non di Ichnusa, sanno di Lorenzo il magnifico, ma non di Mariano IV, sanno di Mazzini ma non di Pitzolo. Sono italiani nell'aver studiato gli affluenti del Po e non l'idrografia sarda, nell'aver studiato Dante piuttosto che la Carta del Logu, i monti degli Appennini e non quelli del Limbara. Sono i figli di quella forzata italianizzazione che ci fa consci delle bellezze di Ravenna e ignoranti di quelle di Castelsardo, della bellezza di San Pietro piuttosto che di quella di Saccargia.

§ Politicamente quei due ragazzi sono italiani, in quanto votano all'interno di un sistema politico italiano. Non meno sono sardi, perché potrebbero, utilizzando il medesimo strumento che è il voto, decidere di scindere il destino della loro isola dall'italia. Potrebbero, appunto.

Eppure questi due ragazzi, così inseriti nel contesto politico, culturale, linguistico italiani sentono spontaneamente la necessità di evidenziare questa loro peculiarità, con quella bandiera, quelle fascette. Perchè? Non sarebbe bastato scrivere all'interno della parte bianca della bandiera "Selargius" o "Oschiri" per definire il posto da dove provengono?
Certo è che il loro desiderio di esplicitare la loro differenza è spontaneo. Non meno certo è che questi ragazzi sono italiani. Ecco, questa dicotomia tra sardo ed italiano, tra piccola e grande patria è a mio avviso ciò che sta alla base della particolarità di quella foto. In questa doppia Patria, in questo prendersi il buono dell'una (l'atleta italiano che gareggia alle olimpiadi) e quello dell'altra (l'orgoglio di far parte di una piccola patria).  

Ed è una posizione che io reputo un po' troppo comoda.

E' infatti comodo sentirsi italiani quando si guarda la Vezzali, e sardi quando si legge dei privilegi della "Casta" che peraltro noi sardi come gli altri italiani abbiamo contribuito a mettere dove sta.
Forse è giunto il momento di rendersi conto che si può andare alle olimpiadi e magari non vincere neppure una medaglia, che si può essere orgogliosi supporter di una squadra che non arriva alle fasi finali di un europeo di calcio, che si può tifare una squadra che quando va bene esce al secondo turno della europa league. Che essere davvero cittadini una piccola patria può essere non meno bello di quello di essere cittadini in un (grande?) patria.
E forse, chissà, potrebbe essere bello scoprire che ci sono altri sport oltre il calcio, altri valori oltre alla vittoria ad ogni costo, che se non vinci la colpa è sempre dell'arbitro e non tua.
E che magari ci possa essere una qualche soddisfazione a non vedere più le risorse che sarebbero dovute essere usate per le tue strade, i tuoi ospedali, le tue scuole sono davvero spesi per quello e non per alimentare una guerra in Afghanistan, o inutili presidi militari in Libano, Kossovo, o nell'acquisto di modernissimi cacciabombardieri.
Forse, davvero, quei ragazzi potrebbero andare a Londra, a Rio o dovunque ci sarà una olimpiade e tifare un atleta sventolando una sola bandiera, ed essere riconosciuti come cittadini sardi. E non importa se il nostro atleta arriverà penultimo. Alle olimpiadi non vale forse il detto di De Coubertin "l'importante è partecipare"?

sabato 14 luglio 2012

Diciotto

Te l'ho detto altre volte. Io non sono giovane né mi sento tale. Oggi per te è un giorno speciale...e lo è anche per me. Il primo dei miei figli compie 18 anni, ed inevitabilmente anche per me è un momento di bilanci.


E così ti passa tutta la vita davanti.
Ma io, Giulia, lo sai che la memoria l'ho spesa quasi tutta per il lavoro o per cose per te inutili come ricordarmi i risultati delle partite del Cagliari.
Perciò ho poche istantanee bene impresse, in quell'album fotografico che dovrebbe invece contenerne migliaia.
§ La prima è il giorno che sei nata. Eri uguale a me. Dopo una settimana eri completamente diversa. Per fortuna.
§ Nella seconda immagine ti vengo a prendere in aeroporto (eri a Parma). Hai 4 anni. Hai un abitino rosso. Ti sollevo per aria come un pallone, e rido, rido come se i quattro anni li avessi avuti io e tu fossi davvero un pallone.
§ La nella terza immagine sei in strada con le tue amichette del vicinato. Sorridi, hai più o meno 6 anni. Sei un piccolo leader, qualcuna è un po' più grande ma non è un problema. Non hai mai avuto problemi di integrazione.
§ In quest'altra siamo in Ogliastra. Lo scoglio non è altissimo, non credo arrivi a 5 metri, ma tu hai 9 anni ed a Olbia non ci sono scogliere. Mi tuffo, mi giro e faccio "Dai, c'è fondo". Dieci secondi dopo sei in acqua a fianco a me. Quel giorno ho capito due cose di te: che ti fidi di me e che di me hai anche un'altra cosa oltre il cognome. Una certa dose di incoscienza.
§ Hai 14 anni e ti vengo a prendere da tua mamma. E' estate, sei abbronzata, hai una camicia pakistana bianca che risalta sulla tua pelle scura. Hai i capelli sciolti, sei sicura di te e dimostri ben di più della tua età. Un padre resta un padre ma l'uomo la sua considerazione la fa lo stesso. No, davvero non sei più una bambina. Ma la ruota sta girando per il verso giusto. Goditi i tuoi anni.

§ Hai 17 anni e mi mostri i tuoi 4 tatuaggi, alcuni dei quali celatimi per anni, prendendomi come fesso. Me li mostri con orgoglio e naturalezza, come si mostrano i tatuaggi. Io so che loro sono stati il tuo percorso dell'adolescenza, in loro ci sono gli errori che hai fatto (e ne hai fatti tanti, e lo sai) e le cose belle che ti sono capitate, come la nascita dei tuoi 2 fratelli.


Lo so che sono noioso, che "ti sto incubando" anche adesso. Ma è il mio ruolo. Io non sono tuo amico, sono  "quello".
Quello che ti ha sempre chiesto "come è andata a scuola" sapendo dei tuoi disastrosi risultati, quello che da bambina ti ha tenuto fino ai nove anni dietro e col rialzo anche se "le mie amichette vanno davanti", e che tutt'oggi ti "ricorda" di dover mettere la cintura. Quello che ti zittiva ai colloqui dicendo "non interrompere il professore" mentre la stragrande maggioranza degli altri genitori andava ai colloqui per fare l'avvocato del figlio (asino). Ma io sono quello. Sono quello che ti ha dato "una surra"  quando ho reputato in coscienza di doverlo fare, e quello che ha pianto con te quando si deve condividere un dolore. Quello che ha provato a spiegarti la fortuna di vivere qui e non altrove, perché è bene non dimenticare che noi siamo nella parte ricca del mondo, prexiaus d'essi Sardus.


Sinceramente non so se sono riuscito a darti  una educazione o quantomeno un esempio di come si possa rimanere con la schiena dritta, con pochi lussi (e non è vero che sono tirchio) e tanto lavoro. Ma il valore del denaro, quando lavorato onestamente, qualcuno te lo deve pur insegnare in una società dove tutto sembra facile, tutto dovuto. E non importa se non diventerai "dottori" come sognavo io. Come non smetterò mai di dirti, ogni lavoro è rispettabile. La vergogna è rubare.


Da oggi hai l'età per navigare da sola. Il tuo scafo forse non è pronto come io avrei voluto, ma il tempo è arrivato.
Buon vento, Giulia.













giovedì 14 giugno 2012

Perché astenersi onorevole Zoncheddu?

A mio avviso la consigliere regionale Claudia Zuncheddu ha perso una grande occasione per dare un esempio di onestà rispetto alla banda di masnadieri che, come degli autentici ladri, hanno bellamente ripreso con la mano sinistra quello che i Sardi avevano loro tolto con un referendum che questa casta aveva finto di appoggiare. L'unica rappresentante dell'indipendentismo sardo avrebbe dovuto denunciare con quanto fiato ha in corpo la manovra da furbetti portata avanti in maniera rigidamente trasversale dai deputati di ogni partito di origine italiana ( meno IDV).
Lei scrive sul suo sito che c'è tanto populismo e l'articolo che si andava a votare non era chiaro.
Le credo. Non meno, proprio perché si dichiara favorevole al taglio degli stipendi degli
"onorevoli" a che pro non esprimersi palesemente contro una norma che invece per certo ripristinava la situazione come se nulla fosse?

Se chi professa l'indipendentismo ovvero la massima espressione della considerazione del Sardo poi non ne rispetta la volontà come pretendere che i Sardi prendano davvero in considerazione l'indipendentismo come autenticamente diversa dai partiti nazionali italiani? L'occasione era ghiotta, perché esitare?
































sabato 12 maggio 2012

Cagliari ...

..che la vita ci ha portati più o meno lontano è quella volta che ti sei sbronzato al Poetto, la vela con la pivella a Monte Urpinu, il sorriso sdentato del venditore di ricci.
Poi dipende dal quartiere, e Cagliari prende colori diversi. Per noi di San Benedetto sono le sigarette comprate al bar Europa a mezzanotte, le paste di Marabotto o quelle di Pirani. Poi ci sono i rumori, gli odori, la chiassosa generosa confusione del nostro bellissimo mercato, le urla dei pescivendoli e gli splendidi banchi di frutta. Per me Cagliari è l'odore degli zerri arrosto, le dita sporche dell'inchiostro dell'Unione Sarda letta con l'avidità del bambino curioso di tutto, le piccole botteghe delle vie intorno a Santa Lucia.
In generale per noi che non viviamo fuori Cagliari è un po' un rimpianto e un po' una scelta, il posto che ti emoziona quando ci pensi ma poi quando ci sei guardi con l'occhio disincantato del vecchio amante.
Cagliari è quegli orari un po' spagnoli, il
sole anche a febbraio, i ristorantini che si spende poco, l'accento che non perdi.
Cagliari sono le sue tantissime chiese, la salita di via Manno e e quei Panini Africani che oggi non fanno più.
È il bastione per ricordarti cosa hai lasciato, l'amico che a quarant'anni vive con i suoi per ricordarti perché l'hai lasciata.




































sabato 25 febbraio 2012

Il buon esempio

Tu sei la Sardegna del dopoguerra, che viene dalla fatica dalle miniere. Uno stipendio da ferroviere ed una famiglia da campare. Pochi svaghi ed una vita semplice. Quella che ti sei scelto.
Tu se la Sardegna che fatto studiare i figli, che parla italiano correttamente e che vive un tenore di vita umile ma incredibilmente al di sopra della generazione dei genitori e rendendosene saggiamente conto vive senza mai lamentarsi.
E senza mai dimenticare come "si fanno le cose".

Perciò sebbene tanto diverso da me avevi tanto da insegnarmi. E l'hai fatto, a modo tuo, con discrezione e talvolta senza capirmi esattamente quando ti rispondevo. Ma ti piaceva la mia curiosità e a me la tua concretezza. Perciò siamo sempre andati d'accordo.

Quando poi sei diventato il nonno di mia figlia, è uscita fuori quella parte di te che forse manco tu sapevi di avere. E così mi hai insegnato, ancora, che si può essere uomini come quelli di una volta, poche parole e tanti fatti, ed un nonno spettacolare, il miglior giocattolo che un bambino possa sperare di avere.

L'altri giorno ero sul tetto di casa a lavare i pannelli solari. Vedevo girare la palla aspira fumo sul comignolo. Come in tante circostanze questo mese mi sono rattristato. Quel giorno avevi avuto una idea brillante per come risolvere un problema. E mi hai insegnato come si fa lo spazzacamino.

Avevi ancora tanto da dare, sono certo che anche Marco ti avrebbe adorato. Il destino ti ha portato via, girando la ruota nel verso giusto ma solo troppo, troppo in fretta.
E sebbene sapevi bene cosa ti stava accadendo hai affrontato tutto con la misura e la serietà che ti contraddistingueva.

Dandomi così, ancora una volta, il buon esempio.

lunedì 13 febbraio 2012

La prossima volta

Ciao Ari.
La prossima volta che farò un pupazzo di neve ad Olbia non sono sicuro che sarai con me a farlo. La frequenza delle nevicate (diciamo sopra i dieci cm.) non è tale da pensare che tra dieci anni o forse più tu avrai voglia di
stare con papà per giocare a fare un pupazzo di neve. La neve si stava già sciogliendo, ma tu avevi voglia di fate quel pupazzo, dicevi "dai facciamolo!" con la coscienza di chi sa che non ricapiterà così presto.

Quello che non sai, bambina mia,
è che se per te non sarà forse così presto, per certo ora la prossima volta non sarà come questa volta.
Tra dieci anni o forse più sarai una donna o quasi. Ed io non sarò certo in cima si tuoi pensieri se vorrai giocare sulla neve in un parco.
Ma sarà bello giocare con la neve e Tavolara alle spalle, ed anche per me sarà un piacere non vederti giocare con me. Perché sarà ha vita che scorre, ed io (forse) sarò li ad aspettarti per cena.



























domenica 13 novembre 2011

Sandro Usai, un "eroe" normale

Io non ho consciuto Sandro Usai. Ho poche cose in comune con lui: essere Sardo, avere un tatuaggio su una spalla, essere padre.
Sandro Usai, leggo dai giornali, era nel continente da un po' più di 10 anni, il che mi dà l'idea che fosse una persona che avesse tentato di vivere nel suo paese.  Ora, io non lo so quando si è fatto tatuare i Mori sulla spalla, ma la mia sensazione è che fosse già emigrato. E che con quel tatuaggio volesse portare il marchio della terra che l'ha generato. 

Ho letto delle testimonianze delle persone che lo conoscevano a Monterosso: era un generoso, una persona che si era completamente inserita nella comunità del paese, lui che da un paese veniva, e di mare, per giunta.
Secondo me operava nella protezione civile sia per quel senso di generosità che aveva innato, sia per un senso di gratitudine su posto che lo aveva accolto.
Noi Sardi siamo così: accettiamo un regalo ma non ci piace rimanere in debito.

Chissà quante volte affacciandosi sul mare, a Monterosso, avrà pensato ad Arbus, alle spiagge di Piscinas e Scivu. Chissà, magari pensava di tornarci, un giorno, e di godere là dei frutti del suo lavoro, come fanno tanti, troppi Sardi.


Ho letto della sua morte, da "eroe".
Io odio la parola "eroe": identifica qualcosa di fuori dall'umano.
A me invece piace immaginare Sandro Usai umano, umanissimo, fatto di rimpianto per non essere potuto rimanere in Sardegna ma orgoglioso per il suo essersi integrato in quel bel paesino che deve essere Monterosso, che amava come casa sua.
A me piace l'idea che fosse un uomo normale, con una vita normale fatta di vittorie e sconfitte, di momenti belli e meno belli. Solo non aveva paura di rischiare (lo sapeva) per aiutaregli altri. A volte va bene, ed un "Grazie, Sandro." sarebbe stato quoanto avresti ricevuto. Ma non è stato così.

Mi piace pensare che ora sei a Scivu, e passeggi tranquillamente in quella lunga spiaggia.
Oppure sei a Monterosso, e passeggi tranquillamente nella via principale e senti dei ragazzini che corrono,  tra loro riconosci tuo figlio.
In un caso e nell'altro, ora sei in pace.

 


lunedì 3 ottobre 2011

Gli ho detto

Ieri sera ho dato il latte "della buona notte" a Marco.
Non lo faccio quasi mai, normalmente è una cosa che fa Daniela.
Lo guardo mentre beve, assorto nei suoi pensieri di bambino di due anni e mezzo.
E così gli detto: quel cappello che ti ho regalato oggi (un Bonnette, il cappello tipico sardo denominato anche impropriamente Berritta) lo devi tenere bene, e lo devi portare via con te il giorno che lascerai questa casa.
E lo darai a tuo figlio, lo farai portare anche a lui, magari solo qualche volta, ma fallo.

Perché è importante.
No, non è solo importante.
E' anche bello.
E' un bel cappello fatto da un artigiano Sardo.
Ed in quel cappello bello c'è la perizia dell'artigiano che l'ha cucito, c'è la tradizione di chi lo ha tramandato, c'è il senso d'appartenenza di chi lo porta. E se sarà fuori moda (lo è anche oggi, se è per quello) questo è un motivo in più per farlo portare.

Perché quel cappello è un simbolo, oltre che un bel cappello. E' il simbolo di quella parte più interna del posto dove sei nato.
Quel cappello è l'albero più bello a cui non è mai stato spezzato un ramo, l'acqua di quel fiume che non è stato inquinato o di quel mare che non vede barche solcarlo.
Quel cappello, Marco, è la voce del padre del padre di tuo padre e di quello di tua madre, la voce di di quelli che erano qui prima di loro, della lingua che parlavano e delle cose che pensavano, belle e brutte.
Quel cappello è perciò non solo bello, ma importante. E quando tuo figlio, che sarà per te almeno bello quanto tu non lo sei per me, lo porterà con un misto di fastidio e curiosità, allora tu sorridigli.

Sorridigli come sorrideresti vedendo quell'albero, quel fiume, quel mare.
Perché quel cappello sei tu, sono io, sarà tuo figlio.

lunedì 19 settembre 2011

Credere ad un sogno o rassegnarsi ad una bugia

Venerdì notte sono andato alla festa di IRS. I concerti di Marino Derosas e Cordas e Cannas erano bellissimi. La gente era poca, eterogenea ma l'aria che si respirava era festosa. Ho rimpianto di non aver portato con me Daniela ed i piccoli (la grande suppongo mi avrebbe chiesto 100 euro per venire ad una cosa del genere). Una cosa buona va condivisa.

Lo so che l'indipendenza della Sardegna è come chiedere al Cagliari di vincere un altro scudetto. Lo so che più passa il tempo più siamo invischiati da questa italianità farlocca, abituandoci giorno dopo giorno ad un normale che è illegale, a non doverci più sorprendere nè indignare. 
Perchè vale tutto.
Basta che sia nuovo, simpatico e ci faccia ridere. 
Basta che ci faccia dimenticare che le cose vanno sempre peggio, che siamo volenti o nolenti parte di questa nazione più grande che ci trova bizzarri nella migliore delle ipotesi.

Eppure, come ho già fatto altre volte, mi voglio ripetere quanto c'è scritto nel parco delle rimembranze di Dublino, sulla stele che commemora la loro indipendenza

In the darkness of despair we saw a vision,

We lit the light of hope and it was not extinguished.

In the desert of discouragement we saw a vision.

We planted the tree of valour and it blossomed.

In the winter of bondage we saw a vision.

We melted the snow of lethargy and the river of resurrection flowed from it.

We sent our vision aswim like a swan on the river. The vision became a reality.

Winter became summer. Bondage became freedom and this we left to you as your inheritance.

O generations of freedom remember us, the generations of the vision.
 Si, forse la mia è solo una visione, un sogno. 
Ma preferisco credere ad un sogno che rassegnarmi ad una bugia.

mercoledì 10 agosto 2011

Come dargli torto?

Ciao, dal mio blog preferito, un bell'intervento del Prof. Morte. L'articolo, condivisibile in tutto, rafforza in me due convinzioni
1- dell'impossibilità di quanto si propugna nell'articolo
2- della necessità di scindere il mio paese da questo altro stato


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Un’esondazione di voltagabbana

Diciamolo per tempo: avremo un’altra occasione da lasciarci sfuggire. Capiterà al termine della storia politica del nostro attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, quando il Titanic ch’egli ha comandato per anni cozzerà inesorabilmente contro il freddo iceberg della sua vecchiaia (a patto che qualche scialuppa non lo recuperi all’ultimo istante – ma in quel caso ci auguriamo si tratterà della barca di Caronte).
“Ho ancora il 60% dei consensi!”, rivendica il Premier. Virgola quattro, Silvio, sennò non ti credono. E infatti qualcuno s’è accorto del pericolo: alcuni topi già abbandonano la cambusa della nave da crociera del Sultano, che comincia ad avere qualche falla ed è destinata ad affondare. Ma è solo l’inizio poiché tanti ne seguiranno, ci vorrà del tempo (pensate che ancor oggi molti imbastiscono manifestazioni pro-Berlusconi. Ottime occasioni, per beccarli tutti assieme).
Bene, il nostro giudizio è questo: non si dovrebbe permettere a nessuno di questi ratti di saltare su di una nuova nave. Non alle pantegane (i servi istituzionali e mediatici del Sultano), e solo parzialmente ai topini (i semplici elettori di Berlusconi), dei quali si potrà tranquillamente incamerare il voto lasciandoli però ai margini delle decisioni (tanto si accontentano già ora d’esser trattati così, non si vede perché concedere loro altro).
Non esiste che la parte del popolo che ha sostenuto per anni un coacervo di delinquenti venga a dettar di nuovo legge come se nulla fosse accaduto, rifacendosi una verginità e raccontandoci di aver sempre criticato Berlusconi o peggio di non averlo votato. Sappiamo bene quanto gli italiani siano avvezzi a questo: un popolo che, salvo minoranze di uomini onorevoli (cioè i partigiani guerriglieri da una parte e i folli fedeli di Salò dall’altra), riuscì a trasformarsi da menefreghista pro-fascista a menefreghista anti-fascista, cambiando bandiera – al solito – al girar del vento. Per non parlare della dabbenaggine che dimostrò nel lasciarsi scippare l’ultima occasione di redenzione (in quel caso, morale), quando, subito dopo “Mani Pulite”, affidò la costruzione della Seconda Repubblica a un già ampiamente compromesso figliastro della Prima. (Oggi Berlusconi, in declino, grida: “Non finirà come nel ’94!”. Lo spero anch’io: non sopporterei la discesa in campo di un altro pifferaio magico).
Dunque siate radicali: voi lo sapete, tra i vostri conoscenti, tra i vostri amici, tra i vostri parenti, chi ha supportato il Sultano. Non dimenticatevene: quando non comanderanno più, non ci dovrà essere compassione per queste persone, che sono responsabili fino alla loro ultima azione pubblica (compiuta per convenienza, per malafede o per ignoranza – non c’importa). La democrazia sembra funzionar meglio laddove è coadiuvata dalla riprovazione etica verso i suoi pervertitori, no?
Politici, inciucisti e finti oppositori, portaborse, servi zelanti, saltimbanchi e troie di regime, sedicenti giornalisti, pubblicitari e propagandisti d’ogni tipo, prelati, pseudo-intellettuali prezzolati, opinionisti un tanto al chilo, feltri e belpietri d’ogni risma, laidi imprenditori, contenti evasori, cittadini ignavi o ignoranti d’ogni sorta. Di tutti dovrà esser fatta piazza pulita (almeno nell’accezione che intese Gianfranco Fini quando, a braccetto con Berlusconi, prese in mano la Rai per la prima volta – ma lui con lo scopo di riempirla di servi). È triste doverlo dire, nella misura in cui può esser triste un’istanza illiberale; si vorrebbe non essere obbligati a sostenerlo, ma quest’obbligo è realistico se, come sosteneva Spinoza (quello meno famoso, senza il “.it”), la pace non è assenza di guerra, bensì una virtù, uno stato d’animo, una “disposizione alla giustizia”.
Bisogna perciò che gl’italiani ci tengano a chiudere una buona volta i conti con loro stessi (cosa che ogni spirito giovane e bennato dovrebbe augurarsi, e infatti Beppe Grillo se ne dimentica sempre). Tuttavia non v’è alcuna speranza che ciò accada: a questo popolo sono state raccontate belle favolette per così tanti anni che ha perso ogni nervo, ogni arditezza, ogni coraggio (che già naturalmente la sua indole tenderebbe a non possedere), ed è maledettamente viziato.
Sarà la solita presa in giro, la solita farsa, il solito penoso melodramma all’italiana. Sarà un’esondazione di voltagabbana.