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domenica 30 marzo 2014

Stressare il concetto

E' passato un mese e mezzo dalle elezioni regionali in Sardegna. Per me, le uniche elezioni che valgono.
Mi ci è voluto un bel po' per farmene una ragione.

Ma la verità è una sola: la mia candidata ha perso, rovinosamente. Il 10% dell'elettorato è stato un risultato estremamente deludente. Eppure si partiva da premesse diverse. La candidata del PD inquisita era messa da parte obtorto collo grazie al solito editto di oltre Tirreno. I 5 stelle non riuscivano a mettere in campo una lista, la destra arrivava alle elezioni divisa e con un numero pazzesco di consiglieri indagati.
Insomma, c'era il tanto per pensare magari non ad una affermazione vincente, ma almeno ad un risultato tra il 15 e 20%. Arrivare in consiglio regionale, far vedere di che pasta si era fatti.

E invece nulla. Un anemico professore universitario, cugino nostrano di Monti il cui unico pregio è stato di avere un padre che ha scritto un grande libro 46 anni fa (che ho anche io, per la verità) è stato incredibilmente eletto con oltre il 40% dei voti. A ciò si aggiunga, consequentia mirabilis, che i voti dell'inguardabile candidato della destra, governatore uscente apostrofato "merda" dallo stesso Silvio B. non erano inferiori a quelli del centro sinistra, che vince le elezioni solo perché il suo candidato governatore ha preso più preferenze individuali.

Perché?
Perché non siamo un popolo, e men che meno il prototipo mal riuscito di una qualche regione autonoma.

Siamo Sardi per il pane carasau, per il mirto, per il vino "di proprietà", perché il mare più bello è il nostro, perché "noi non siamo meridionali", perché "lo diceva anche Fabrizio De André che la Sardegna è il paradiso".


Siamo Sardi  perché la bandiera dei 4 mori è sempre dappertutto (e molto spesso a sproposito), perché parliamo sardo ma ce ne vergogniamo, perché per sembrare integrati parliamo con l'accento di Milano, o di Torino, o di Genova (con risultati spesso imbarazzanti), perché Gramsci e Berlinguer e Zola... sono stati quello che sono stati  fuori dalla Sardegna.


Siamo Sardi perché non riusciamo ad immaginare un campionato di calcio che si giochi tra Cagliari, Sassari Olbia e Alghero, perché i "continentali" li reputiamo spesso bizzarri ma vogliamo essere come loro, perché andiamo in vacanza a Ibiza dove tutto è cementificato fino a dentro l'acqua del mare, che diciamo tranquillamente che fa cagare, ma che "loro si che fanno turismo tutto l'anno".


Siamo Sardi perché siamo invidiosi fino al midollo del nostro vicino, che bruceremmo casa nostra pur di bruciare la sua. Perché non compreremmo uno spillo ad un sassarese ma lo compreremmo arrugginito da uno di Parma. Perché "tu non puoi capire la nostalgia" ma poi "in Sardegna non ci torno, si vive di merda, il problema siamo noi (voi)".


Siamo Sardi perché non abbiamo speranze e quando qualcuno ci offre una soluzione cerchiamo il raggiro, il trabocchetto, la fregatura. Perché dentro di noi siamo stati nuragici fregati dai fenici fregati dai cartaginesi fregati dai romani fregati dai bizantini fregati dai pisani fregati dagli aragonesi fregati dai piemontesi fregati dagli italiani fregati dall'Europa.


Siamo Sardi perché la malinconia è dentro di noi, il nostro carnevale fa paura, le nostre maschere fanno piangere i bambini. Il suono della nostra musica viene dai flauti dei pastori di 4000 anni fa e non è mai cambiata. E' armonica, ritmica, ma sempre uguale. I nostri vestiti sono elegantissimi, ma  il nero è il colore dominante. Perché da noi la convivialità vuol dire bere fino a perdere conoscenza, e se non bevi sei un caghino, e se non reggi l'alcool sei un mezzo caghino, e se sei un caghino..non sei sardo.


In ultimo, siamo Sardi perché da soli non sapremo mai governarci, come diceva Carlo Quinto. Certo, siamo abilissimi in ammazzarci in faide che se ci hanno protetto dall'instaurarsi di criminalità organizzata (fino ad oggi) ci hanno reso violenti ed infidi tra noi dai tempi dei tempi.
In quest'ambito, letteralmente, non sappiamo fare un cazzo, in speci ein politica. Un esempio?
Il consigliere UDC Giorgio Oppi – indagato per peculato nell’inchiesta sull’abuso dei soldi ai gruppi consiliari – è stato appena eletto nel collegio dei questori del Consiglio Regionale con incarichi di verifica dell’attività del suddetto consiglio e gestione proprio dei fondi consiliari. C'è un bel detto in campidanese: fidai puddas a marxiani, consegnare le galline alla volpe.
Ecco, questo per me è stressare il concetto. Noi da soli non sappiamo governarci.

A Dublino in un parco c'è una roccia dove c'è scritto
In the darkness of despair we saw a vision,
We lit the light of hope and it was not extinguished.
In the desert of discouragement we saw a vision.
We planted the tree of valour and it blossomed.
In the winter of bondage we saw a vision.
We melted the snow of lethargy and the river of resurrection flowed from it.
We sent our vision aswim like a swan on the river. The vision became a reality.
Winter became summer. Bondage became freedom and this we left to you as your inheritance.
O generations of freedom remember us, the generations of the vision.

Io faccio parte, per certo, della generazione dei nonni dei visionari. Malasorti.

domenica 4 novembre 2012

il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione

Adriano Sofri ha recentemente scritto a proposito di due notizie apparentemente tra loro distanti: l'assoluzione  di Niki Vendola e l'annunciato licenziamento di 19 metalmeccanici di Pomigliano.
Sono due notizie che parlano di una Italia dove le regole vengono ridotte a carta straccia, dove l'attacco alla legalità o la noncuranza della legge è la cifra sia del potere politico che di quello economico.


Eppure i due fatti sono figli della stessa matrice: il rispetto delle regole come parte fondante nell'esistenza di una nazione. Vendola ha agito come si agisce nelle democrazie occidentali (quelle vere). Si sarebbe dimesso perchè una regola non scritta ma comunemente accettata impone alla persona per bene di farlo. Per la sua rispettabilità e per quella dell'istituzione che rappresenta.
Ed è incontestabilmente una eccezione.


L'azienda osannata da tanti politici dalla fedina penale più o meno immacolata che ignora lo statuto dei lavoratori è l'ennesimo esempio che il potere economico ha a sua volta una malsana idea del diritto, che combacia con quello del più forte, o ricco, in barba al rispetto delle leggi.

Ecco, quando vengono a mancare i pilastri di questa rispettabilità intesa come stato, il concetto stesso di stato vacilla.E l'Italia si trova, oramai da troppo tempo, in questa oscena situazione.

Vale davvero la pena per i Sardi di considerare questa come la nazione dove è meglio vivere?


giovedì 16 agosto 2012

Un po' Sardi e un po' no. Forse un po' troppo comodo.

In questa foto, che ho scattato dallo schermo del televisore, a mio avviso si evince uno spaccato del giovane sardo di oggi. Infatti chi non è italiano penserebbe che quei due ragazzi tifano due nazioni diverse, confondendo magari la bandiera sarda con quella georgiana.
Certo, quei ragazzi tifano un atleta italiano. In fin dei conti sono italiani: "linguisticamente", "culturalmente", "politicamente". Ma sono anche sardi, per gli stessi motivi (mi permetto tutt'al più di aggiungere "geograficamente").

§ Linguisticamente il giovane sardo capisce la sua lingua quasi sempre, ma sempre meno la parla. La tradizione orale e non scritta è stata una disgrazia per i nuragici, dei quali sapremmo oggi ben di più se essi avessero avuto una qualche forma di scrittura. Oggi non è molto diverso dal tempo del nuraghe, anzi. La progressiva italianizzazione figlia della TV ha reso l'uso della lingua dei nostri padri marginale. Già afflitti da un   falso ed ingiustificato (eppure atavico) sentimento di inferiorità rispetto allo straniero, i sardi come noto spesso provano pudore (per non dire vergogna) a parlare la propria lingua al di fuori di un contesto familiare o strettamente circoscritto al paese. Per il resto del mondo essi sono italiani. Ne parlano la lingua, appunto.
§ Culturalmente quei giovani sardi sono italiani. Ne conoscono storia (italiana appunto, non sarda), sanno degli Etruschi ma non dei sardi nuragici, di Scipione l'africano, ma non di Ichnusa, sanno di Lorenzo il magnifico, ma non di Mariano IV, sanno di Mazzini ma non di Pitzolo. Sono italiani nell'aver studiato gli affluenti del Po e non l'idrografia sarda, nell'aver studiato Dante piuttosto che la Carta del Logu, i monti degli Appennini e non quelli del Limbara. Sono i figli di quella forzata italianizzazione che ci fa consci delle bellezze di Ravenna e ignoranti di quelle di Castelsardo, della bellezza di San Pietro piuttosto che di quella di Saccargia.

§ Politicamente quei due ragazzi sono italiani, in quanto votano all'interno di un sistema politico italiano. Non meno sono sardi, perché potrebbero, utilizzando il medesimo strumento che è il voto, decidere di scindere il destino della loro isola dall'italia. Potrebbero, appunto.

Eppure questi due ragazzi, così inseriti nel contesto politico, culturale, linguistico italiani sentono spontaneamente la necessità di evidenziare questa loro peculiarità, con quella bandiera, quelle fascette. Perchè? Non sarebbe bastato scrivere all'interno della parte bianca della bandiera "Selargius" o "Oschiri" per definire il posto da dove provengono?
Certo è che il loro desiderio di esplicitare la loro differenza è spontaneo. Non meno certo è che questi ragazzi sono italiani. Ecco, questa dicotomia tra sardo ed italiano, tra piccola e grande patria è a mio avviso ciò che sta alla base della particolarità di quella foto. In questa doppia Patria, in questo prendersi il buono dell'una (l'atleta italiano che gareggia alle olimpiadi) e quello dell'altra (l'orgoglio di far parte di una piccola patria).  

Ed è una posizione che io reputo un po' troppo comoda.

E' infatti comodo sentirsi italiani quando si guarda la Vezzali, e sardi quando si legge dei privilegi della "Casta" che peraltro noi sardi come gli altri italiani abbiamo contribuito a mettere dove sta.
Forse è giunto il momento di rendersi conto che si può andare alle olimpiadi e magari non vincere neppure una medaglia, che si può essere orgogliosi supporter di una squadra che non arriva alle fasi finali di un europeo di calcio, che si può tifare una squadra che quando va bene esce al secondo turno della europa league. Che essere davvero cittadini una piccola patria può essere non meno bello di quello di essere cittadini in un (grande?) patria.
E forse, chissà, potrebbe essere bello scoprire che ci sono altri sport oltre il calcio, altri valori oltre alla vittoria ad ogni costo, che se non vinci la colpa è sempre dell'arbitro e non tua.
E che magari ci possa essere una qualche soddisfazione a non vedere più le risorse che sarebbero dovute essere usate per le tue strade, i tuoi ospedali, le tue scuole sono davvero spesi per quello e non per alimentare una guerra in Afghanistan, o inutili presidi militari in Libano, Kossovo, o nell'acquisto di modernissimi cacciabombardieri.
Forse, davvero, quei ragazzi potrebbero andare a Londra, a Rio o dovunque ci sarà una olimpiade e tifare un atleta sventolando una sola bandiera, ed essere riconosciuti come cittadini sardi. E non importa se il nostro atleta arriverà penultimo. Alle olimpiadi non vale forse il detto di De Coubertin "l'importante è partecipare"?

martedì 8 settembre 2009

Indipendenza dello stato sardo: utopia o autentica possibilità?

Recentemente da semplice simpatizzante sto seriamente interessandomi alle vincende dell'indipendentismo isolano.
Dal mio background di ex studente di storia ho cercato dei "case studies" che si potessero in un certo qual modo avvicinare a quanto potrebbe accadere in Sardegna: sinceramente anche il più similare in termini geopolitici (la nascita della repubblica d'Irlanda negli anni '20) ha dei connotati che non riesco a trovare nella nostra realtà.

Nel dettaglio, quel sincero e profondo "sentidu" che caratterizza le autentiche lotte indipendentiste e la mancanza di una classe intellettuale che porti avanti un pensiero politico coerente con tale rivendicazione.

Ciò a mio avviso ha radici lontane: la creazione dello stato italiano come nazione è palesemente non una rivoluzione di popolo, come accadde per esempio in Grecia nell'800, ma il risultato di un'accorta politica di alleanze e fortunate coincidenze del più attivo dei regni peninsulari che, per uno strano scherzo del destino, si chiamava appunto regno di Sardegna. Dunque, come dire, noi siamo Italia prima degli italiani. In più, nel momento in cui i Sardi, finita la prima guerra mondiale e tornati nelle loro case dalla prima autentica esperienza di massa di espatrio (seppure per fini di belligeranza) trovano finalmente coscienza della loro specificità ed unicità, invece che optare per la soluzione indipendentista scelgono quella autonomista. E' quello, non dimentichiamoci, il momento di maggior coscenza e successo popolare di una forza politica di ispirazione Sarda. Sarda, eppure indiscutibilmente italiana.

In secondo luogo, dal punto di vista culturale, le migliori intelligenze dello scorso secolo, da Gramsci a Lussu a Berlinguer, si sono mosse nell'alveo culturale italiano, certo chi più chi meno con connotazioni che rendevano riconoscibile la loro ascendenza regionale, ma che in fin dei conti italiani. Dunque, appunto, la mancanza di una classe intellettuale che razionalizzi in pensiero politico il sentimento popolare.

Questi due gap, tuttavia, sarebbero potuti essere sconfitti se, appunto, ritrovandosi in una situazione di palese insofferenza del governo centrale, si levasse dall'opinione pubblica isolana un forte sentimento di secessione. Ma ciò non accade, anzi. Drogati da una televisione e stampa (anche e spesso locale e dunque ancora più colpevole) che preferiscono il Billionaire al Nuraghe, i Sardi hanno sviluppato una sorta di masochismo che li rende, specie le giovani generazioni, più refrattari all'idea di identità Sarda e sempre di più omologati ai parietà continentali nella celebrolesa identificazione col "furbo che ha svoltato". Degli ideali di equità sociale e del modo di vivere semplice delle decine e decine di generazioni di Sardi che gli hanno preceduti su questa Isola, nessuna traccia.

La mia sconfortante disanima potrebbe terminare qui se, invece, non ci fossero dei chiari elementi di vantaggio che potrebbero, nel giro di pochi anni e se ben spesi, fare la fortuna di un movimento indipendentista nazionale Sardo e che proverò a riassumere in alcuni punti.

- La comunicazione può diventare l'elemento essenziale di un aumento di visibilità del movimento indipendentista: mai come nel mondo di oggi la circolazione di idee, documenti ed immagini è facile. Mai come oggi, grazie ad internet, attività come il blogging ed il social network rendono immediata la fruizione di contenuti.
-L'alfabetizzazione massiva consente a chiunque di poter sviluppare una coscienza critica. Oggi chi vuol essere disinformato politicamente lo fa per sua precisa scelta. Quel tipo di cittadino/elettore seguirà la corrente se essa sarà impetuosa, o sennò non andrà a votare. Ma, contestualmente, rende maggiori le possibilità di aver a che fare con cittadini consapevoli, dunque potenzialmente più sensibili ad un messaggio diverso dal solito "un milione di posti di lavoro".
- La ripresa di identità nazionale Sarda come elemento di distinzione nel vestire: l'argomento, me ne rendo contro, potrebbe apparire futile, eppure, entrambi i candidati di schieramenti naizonali nelle precedenti elezioni avevano, chi in una giacca chi con una camicia, elementi che facevano l'occhiolino alla rinascente tradizione sartoriale dell'interno, non più vista come mero elemento folcloristico, ma come elemento "fashion" da sbandierare.
- La maggiore possibilità per i Sardi di fare viaggi di turismo al di là del mare li rende consapevoli delle straordinarie potenzialità, ovviamente non solo turisiche, dell'Isola. Rende inolte i più consapevoli dell'incredibile inettitudine della classe dirigente regionale. Questo aspetto è sempre sottovalutato nei dibattiti politico, ed è invece uno straordinario punto di forza per un movimenot indipendentista.
- La composizione demografica degli abitanti dei centri maggiori è estremamente eterogenea grazie ai flussi migratori interni degli anni 50 e 60 in alcune zone ed ancora molto consistenti in altre (Gallura per es.). Ciò può eliminare la connotazione campanilistica sostituendola con un più comune senso di sardità, e dunque di presa di coscienza dell'esistenza di una relatà nazionale Sarda.

Questi pochi punti sono evidentemente incompleti e frutto di un'analisi sommaria, ma possono essere comunque di spunto. Tuttavia, per un'autentica possibilità di elaborazione di un programma alternativo a quelli nazionali, evidentemente, mancano riferimenti di programma solidi. Non si può basare tutta una campagna elettorale sull'indipendenza energetica. Essa è senz'altro un ottimo argomento, particolarmente sentito nella nostra terra, ma è uno solo degli argomenti che IRS potrebbe legittimamente portare avanti.
Insomma il punto interrogativo del titolo di questo mio scritto potrebbe rimanere lì per altri 600 anni. E forse sarebbe un peccato.