Inserisco molto volentieri nel mio blog questo articolo di Fabiano Schivardi, docente di Economia Politica presso l’Università di
Cagliari, già pubblicato presso Lavoce.info
Buona Lettura
----------------------------------------------------------------------------------------------------
Ancora una volta, l’articolo 18 si presenta come un
ostacolo insuperabile a qualunque discussione di riforma del mercato del
lavoro. Il dibattito si svolge per lo più sulla base di giudizi di
valore, da una parte perché è molto difficile misurare i costi effettivi
della norma, dall’altra perché su questo argomento non sembra esserci
spazio per posizioni sfumate: o è un elemento di civiltà irrinunciabile
(ad esempio per i sindacati) o la fonte di tutti i mali della nostra
economia (ad esempio per l’ex ministro Sacconi).
I limiti dell’articolo 18
Secondo l’ordinamento italiano, il licenziamento non deve essere discriminatorio
e deve essere motivato da ragioni oggettive legate alle necessità
produttive dell’impresa o soggettive dovute al comportamento del
lavoratore. Nel caso non sussistano giustificazioni per il
licenziamento, sono previsti due tipi di tutela a seconda della
dimensione dell’impresa. La tutela reale (definita
nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) copre, in generale, i
lavoratori delle imprese private con più di 15 addetti e prevede un
risarcimento monetario e la possibilità che il lavoratore scelga tra
reintegro sul posto di lavoro e un’ulteriore indennità. La tutela obbligatoria
copre i lavoratori delle altre imprese private e prevede esclusivamente
un risarcimento monetario che varia da 2,5 a 6 mensilità. Per le
imprese private con più di 15 addetti, la normativa disciplina anche i
licenziamenti collettivi, ovvero quelli che riguardano almeno 5
dipendenti e sono motivati da necessità legate all’attività produttiva. È
prevista una specifica procedura che coinvolge le parti sociali e gli
organi amministrativi locali. È questa (più che l’articolo 18) la
normativa che rileva nel caso di crisi aziendali, particolarmente
frequenti in questa fase.
L’articolo 18 offre quindi una protezione contro il licenziamento senza giustificato motivo. Da un punto di vista strettamente economico, è un modo inefficiente per proteggere i lavoratori per vari motivi. Il suo campo limitato di applicazione ha anche forti caratteri di iniquità.
In primo luogo, l’indennizzo (o il reintegro) si applica solo nel caso
che il giudice ritenga illegittimo il licenziamento. In caso contrario,
l’impresa non ha nessun obbligo di corrispondere un’indennità al
lavoratore che rimane disoccupato. Nella maggioranza dei paesi
industrializzati, l’impresa corrisponde comunque un indennizzoal
lavoratore licenziato, anche in caso di giusta causa. In Italia, il
lavoratore licenziato per giusta causa non solo non ha accesso a un
adeguato sistema automatico di assicurazione contro la disoccupazione,
ma non riceve neanche un risarcimento monetario dall’impresa.
Il secondo problema è che l’articolo 18 chiama pesantemente in causa il sistema giudiziario. Anche se i tribunali del lavoro
operano con più rapidità di quelli civili, il ricorso alla magistratura
è sempre molto oneroso in termini di costi monetari, lunghezza delle
procedure, incertezza dei risultati. A riprova di ciò, nel 1998
un’indagine sulle imprese manifatturiere con oltre 50 addetti rivolgeva
agli imprenditori la domanda: “Nella vostra percezione, qual è il peso
dei seguenti fattori nel determinare i costi potenziali connessi al
licenziamento individuale per necessità economica dell’impresa
(“giustificato motivo”): a) inadeguatezza dei meccanismi di
conciliazione; b) deterioramento nelle relazioni aziendali; c) lunghezza
delle procedure legali connesse all’eventuale ricorso del lavoratore;
d) incertezza dell’esito delle procedure legali connesse all’eventuale
ricorso del lavoratore?”. Solo il 35 per cento delle imprese attribuisce
un “abbastanza o molto” alla domanda a) e il 21 per cento alla b). Le
percentuali salgono quando entra in ballo il tribunale: 56 per cento
alla c) e ben il 61 per cento alla d). Le imprese si lamentano della
lunghezza delle procedure legali e, ancora di più, dell’incertezza
dell’esito della causa.
La forma di tutela prevista dall’articolo 18 implica tempi lunghi ed esiti incerti, introducendo un costo implicito notevole, che sottrae risorse a eventuali compensazioni dirette fra le parti.
Riducendo la possibilità di riallocare il lavoro, l’articolo 18 abbassa
la produttività del sistema economico. Minore produttività implica
inevitabilmente salari più bassi, anche se non esistono stime quantitative dell’effetto.
Infine, l’aspetto più iniquo del nostro sistema di regolamentazione del mercato del lavoro è il dualismo,
con forti differenze fra protetti e non. I costi di efficienza
dell’articolo 18 sono sopportati in gran parte da chi non ne è tutelato
(i lavoratori senza contratto a tempo indeterminato e quelli in aziende
al di sotto dei 15 dipendenti), sui quali si scarica la domanda di
flessibilità delle imprese.
Garantire il diritto a non essere licenziati senza giusta causa non è quindi gratis, tantomeno per i lavoratori.
D’altra parte, non si vive di sola efficienza: si può essere disposti a
“pagare” per un diritto che si ritiene importante. La questione
fondamentale è quindi capire i termini del trade-off, cioè quanta
importanza si attribuisce alla tutela del diritto rispetto al costo che
il sistema economici sopporta per garantirlo. Siamo qui nel campo dei
valori e non ci sono strumenti di misurazione oggettiva. Ci possiamo
solo affidare alle azioni di tutela messe in campo dai diretti
interessati. E non ci sono dubbi: l’articolo 18 ha un forte valore simbolico.
Per i sindacati ha sempre rappresentato uno dei pochi elementi non
negoziabili e si sono sempre opposti senza esitazione persino a
discutere dell’argomento. Il comportamento sindacale sembra riflettere
un atteggiamento diffuso nei lavoratori, come testimonia ad esempio la
manifestazione oceanica organizzata dalla Cgil nel 2002 per protestare
contro ogni ipotesi di modifica. I lavoratori, quindi, sembrano disposti
a sopportare i costi impliciti di questa forma di tutela.
Quella fatidica soglia
Valutare i costi di efficienza per l’impresa è molto difficile. In un
lavoro con Roberto Torrini (2008) abbiamo confrontato il comportamento
delle imprese appena sopra e appena sotto la soglia dei 15 dipendenti.
L’idea è che imprese con 15 o 16 dipendenti sono fra loro molto simili, a
parte il fatto che quelle sopra la soglia sono soggette all’articolo
18. Eventuali diversità nei comportamenti possono essere usate per
“misurare” l’importanza dell’articolo 18. Al solito, i risulti vanno
presi cum grano salis. L’analisi si basa infatti su dati fermi al 1998.
Nel frattempo, ci sono stati cambiamenti importanti nel sistema
economico (ma non nella normativa). Inoltre, è possibile l’effetto
soglia catturi solo una parte degli effetti complessivi dell’articolo
18. Ciò detto, evidenze alternative non ci sono.
Come visto sopra, la legge prevede una netta discontinuità nei costi di
un licenziamento giudicato illegittimo per le imprese con più di 15
dipendenti. Questo fatto viene spesso indicato come una delle cause del
nanismo delle imprese italiane. Se così fosse, ci dovremmo aspettare un
addensamento di imprese appena sotto la soglia dei 15 dipendenti e una
forte caduta sopra di essa. La figura sotto riporta il numero di imprese
per dipendenti per le classi dimensionali da 5 a 25 (1). Il numero decresce regolarmente, con al più una piccola caduta a 16 dipendenti. Non c’è ammassamento sotto la soglia.
Abbiamo anche considerato la propensione a crescere delle imprese. Se
passare la soglia dei 15 dipendenti è molto costoso in quanto si diventa
soggetti all’articolo 18, ci dovremmo aspettare che le imprese siano
molto restie a farlo. La figura sotto riporta la quota di imprese che
accrescono l’occupazione da un anno all’altro. La quota cresce
regolarmente con la dimensione, in quanto più grande è l’impresa e
maggiore è la probabilità di accrescere l’occupazione (e,
simmetricamente, di decrescerla). Si vede molto chiaramente un calo in
prossimità della soglia: le imprese sono più restie a crescere quando
ciò comporta il passaggio di soglia. Ma la caduta è modesta: la
probabilità di crescere scende dal 35% che si verificherebbe senza
l’effetto soglia al 33 per cento (abbiamo riscontrato riduzioni di
entità simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare
l’obbligo di assunzione di categorie protette, una tutela che certo non
riceve l’attenzione dell’articolo 18)
(2). Utilizzando tecniche statistiche, abbiamo anche calcolato che la dimensione media delle imprese italiane crescerebbe dello0,5 per cento
rimuovendo l’effetto soglia. Siamo ben lontani dal raddoppio necessario
per arrivare ai livelli degli altri paesi industrializzati.
In conclusione, i costi aggiuntivi derivanti dal superamento della
soglia dei 15 dipendenti non sono ritenuti così onerosi dalle imprese da
far rinunciare massicciamente a opportunità di crescita. Il trade off è
quindi costi sociali alti, dato l’alto valore simbolico attribuito
all’articolo 18 da parte dei lavoratori e benefici di efficienza
incerti, probabilmente modesti. Bisogna domandarsi se il gioco vale la
candela, o se non si possa agire su altri aspetti meno controversi per
rendere più efficiente il nostro mercato del lavoro. Gli ambiti di
intervento non mancano. C’è spazio per migliorare la
normativa sui licenziamenti collettivi,
che, secondo gli indicatori Ocse, potrebbe essere semplificata per
assicurare una gestione più efficiente degli stati di crisi. Si può
anche agire sulla flessibilità “interna”, cioè di gestione della forza
lavoro, su cui si sono fatti progressi sotto la spinta della vicenda
Fiat (nella quale, tra l’altro, la questione licenziamenti non è mai
stata sollevata) ma su cui si può ancora migliorare. E serve mettere
ordine nel sistema di ammortizzatori sociali. A quel punto, chissà,
potrebbe essere possibile discutere di articolo 18 senza dover salire
sulle barricate.
(1)
La figura è tratta da Schivardi e Torrini
“Identifying the effects of firing restrictions through size-contingent
differences in regulation”, Labour Economics 15 (2008) 482–511.
(
2) Conclusioni simili sono raggiunte
da Garibaldi, P., Pacelli, L., Borgarello, A., 2004, “Employment
protection legislation and the size of firms”, Giornale degli economisti e annali di economia 63, 33–68 .
Nel nostro lavoro, inoltre, abbiamo riscontrato riduzioni di entità
simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di
assunzione di categorie protette.
Nessun commento:
Posta un commento