Riporto integralmente l'articolo di Paolo Flores D'arcais uscito su MicroMega
“José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo”. Mentre le agenzie di stampa battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli.
Evidentemente gli indimenticabili romanzi del premio Nobel portoghese hanno la capacità di coinvolgere il lettore “corpo e anima”, sollecitarne lo spirito critico e insieme le emozioni e la fantasia, anche di fronte ai temi sui quali la Chiesa gerarchica vorrebbe esercitare un occhiuto monopolio, se l’ “house-organ” del preteso Vicario di Cristo in terra ha sentito il bisogno irrefrenabile di vomitare a tambur battente un “vade retro!” di ingiurie sconnesse, a cadavere ancora caldo, anziché il “requiescat in pacem” canonico.
Si comincia con un “sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l’abbia tenuto in vita a tutti i costi”, che vorrebbe utilizzare in modo ironico una frase del suo romanzo Tutti i nomi, e che invece trasuda semplicemente livore e volgarità.
Dopo di che inizia il rosario delle accuse contro i suoi romanzi, il loro contenuto, lo stile, tutto: “la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo” (e ci mancherebbe altro, visto che fa il romanziere e non lo storico), “una struttura autoritaria totalmente sottomessa all’autore, più che alla voce narrante” (alla “penna” del Papa sfugge che - a condurre il gioco sia la voce narrante o l’autore - “Madame Bovary c’est moi”, come spiegava Flaubert e come vale per qualsiasi scrittore), “una tecnica dialogica in tutto debitrice all’oralità” (dove non si capisce in cosa consista il difetto, visto che l’impasto narrazione-oralità è uno degli elementi stilistici che rende memorabili le opere di Saramago), “un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l’impronta ideologica d’eterno marxista”: ecco, ci siamo, è questo che manda in bestia il quotidiano del Papa. E soprattutto “un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione”.
La grandezza letteraria non c’entra, insomma. L’Osservatore romano è infatti patetico quando tenta di ridimensionare sotto il profilo della creatività un’opera che ha reso Josè Saramago il più grande scrittore vivente, quello che riesce a imbastire è solo un processo in perfetto stile sant’uffizio. Prima imputazione: “per quel che riguardava la religione, uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro (…) Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico”. Ora, la parola “uncinata” evoca in italiano per prima cosa la “croce uncinata”, assonanza hitleriana da lapsus autolesionista, aggettivo che andrebbe accuratamente evitato sul giornale di un Papa che in gioventù indossò la divisa della Hitlerjugend. Ma quando si è in preda alla furia dell’odio teologico non si controlla più quel che si dice.
Del resto, poiché l’altra immagine evocato da “uncinato” è quella dei ganci a cui vengono appesi i quarti di bue dai macellai, in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. Infine resta l’interrogativo: l’autore del cristiano necrologio vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.
In che cosa consisterebbe, poi, “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato da Claudio Toscani? Di aver sostenuto (la sintesi è del “Carneade”) che “se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa” e dunque di essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza”. Cioè di aver illustrato con strepitoso talento narrativo le antinomie della teodicea, delle quali i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi. Oltretutto Toscani, da improvvisato filosofo, dimentica che la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza non è l’onniscienza, ma l’infinita bontà e/o giustizia, visti gli orrori di cui è colmo il “Suo” creato.
Ma l’opera che ha fatto venire alle gerarchie della Chiesa un autentico travaso di bile, che a distanza di venti anni ancora perdura, è evidentemente il Vangelo secondo Gesù, “sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare”. Non lo sa l’amanuense del Papa, lo sanno benissimo invece i milioni di appassionati lettori, e gli storici del cristianesimo primitivo, per i quali è acquisito che il profeta ebreo itinerante di Galilea chiamato Gesù non si considerò mai il Messia (per una minoranza, al limite, “Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce”, proprio quanto Toscani imputa a Saramago!), e che effettivamente “Maria Gli è stata madre occasionale” al punto che di Maria di nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21).
Quando il paladino del Vangelo secondo Ratzinger conclude, lancia in resta ma prosa un po’ contorta, che “la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo”, si può solo dire: “de te fabula narratur”.
Del resto, l’odio teologico impedisce il rispetto della logica e perfino il rispetto dei fatti, visto che come botta finale l’Osservatore romano rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.
Saramago chiamava tutto questo “comunismo”, ma come ha ricordato Luis Sepúlveda, per Saramago “essere comunista nel confuso secolo XXI” era semplicemente “una questione di etica di fronte alla storia”, non era ideologia ma intendere “la solidarietà come un fatto collegato al vivere. Nessuno si è sacrificato tanto per tante cause giuste e in così poco tempo”.
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