La crisi c'è, di nervi. Ho controllato la data di nascita di Silvio Berlusconi: 29 settembre 1936. Ha 71 anni. L'aspettativa di vita di un maschio italiano di oggi supera i 78 anni (gli 84 per una donna, ammesso che riesca a scampare ai maschi, italiani e no). Benché Berlusconi possieda più o meno 30 mila miliardi di vecchie lire, e vivere sotto una cifra tale non debba essere facile, bisogna immaginare, a parte gli auguri migliori, che disponga almeno di una decina d'anni di vita e di attività.
Se invece vivesse, diciamo, come Mao Ze-dong, 83 anni pieni, gliene resterebbero altri 12. Dico Mao non a caso, come vedremo. Questi strampalati calcoli - che il signor B. perdonerà: lui è superstizioso, portano bene — mettono a fuoco la questione. Il centrodestra ha, da alcuni anni, e più decisamente dopo la sconfitta nelle politiche scorse, un'unica ragion d'essere: il dopo-Berlusconi, e più esattamente la guerra di successione a Berlusconi. Berlusconi, senza il quale quel centrodestra non sarebbe esistito (e purtroppo nemmeno una buona parte del centrosinistra) è oggi, con i suoi tredici anni di carriera tirata, un navigato uomo politico. Ma prova ancora, e magari riesce, a mostrarsi come un outsider, un prestato alla politica, uno di passaggio. Ha il suo tornaconto: una tasca per la politica, una per l'antipolitica. Perfino tutti quei soldi, poveretto, ai quali nessuno riesce neanche per un momento a non pensare guardandolo, funzionano come un segno di estraneità: che cosa volete che gliene importi a lui della pensione da parlamentare, che per tanti bravi padri di famiglia è un cosi fatale traguardo. Nel feudalesimo italiano, il centrosinistra soccombe ai valvassini, il centrodestra ai vescovi-conti. Berlusconi è riuscito a convincere della propria provvisorietà in politica, oltre che se stesso, anche i suoi alleati, che hanno pazientemente fatto la loro parte, e poi, un po' più impazienti, hanno cominciato a mordere il freno e a immaginare il proprio posto in un futuro senza Berlusconi, che davano per scontato — gli intrusi della politica (è la traduzione esatta di outsider) infatti, come sono venuti, se ne andranno — e cui anzi hanno pensato di dare una spintarella. Così, a più riprese, sembrando Berlusconi sul punto del commiato e del congedo, i comandanti in seconda (il primo è uno, i secondi sono folla) hanno fatto la loro corsa, mista di sortite e frenate e zigzag. Costoro, piccolo plotone, hanno affidato alla politica, chi più spericolatamente, come Casini, chi più prudentemente, come Fini, le sorti della propria personale aspirazione alla successione. Ma Berlusconi non si toglieva di mezzo, e anche quando l'universa politologia lo decretava spacciato - penultimo esempio, all'indomani delle elezioni del 2006, ultimo esempio, all'indomani della spallata mancata sulla Finanziaria- tornava a drizzarsi loro davanti, con quel sorriso stampato da omino del Brylcreem. L'ultima resurrezione, sulla gloria del predellino, minaccia il colpo di grazia agli alleati in seconda. Già nei giorni precedenti, imploso il centrosinistra, il centrodestra era esploso, e i suoi notabili dicevano ad alta voce quello che si dovrebbe solo sussurrare nella penombra di un bar minato di microspie. C'era, in quella brusca caduta dei freni inibi-tori, qualcosa di penoso, una indigestione di bocconi amari, e qualcosa di maramaldo, la liquidazione senza benservito di un padronaggio troppo protratto.
È qui, direi, che i proci di Berlusconi hanno accusato il colpo, hanno sentito perduta la battaglia della pazienza e della manovra politica, e si sono abbandonati alla biologia, cioè all'anagrafe. Con una rassegnazione disarmante, Fini l'ha detto: io ho vent'anni di meno. Vuol dire: si arrampichi pure sul predellino, faccia pure il suo appello plebiscitario, mi porti pure via il tappeto di sondaggi di sotto i piedi, ma fra vent'anni io avrò gli anni che lui ha oggi, e lui... Se non la politica, o la storia, sarà la natura a vendicarmi. Non è l'unico indizio della crucialità della questione ereditaria. Prendete la svelta adesione di Daniele Capezzone al Partito del Popolo pur mo' nato. Capezzone viene da un traumatico diseredamento, tra i Radicali italiani di Marco Pannella (78 anni, esattamente l'aspettativa media di vita dei maschi italiani: lunga vita a Marco). Una fretta nel giovane erede (più o meno) designato, una ribellione al corso naturale delle cose nel vecchio capo, e la successione saltò. Se gli fuggisse dal petto lo stesso sospiro di Fini, Capezzone potrebbe vantare, rispetto a Berlusconi, una differenza non di 20, ma di 36 anni: neanche la metà. Auguri a tutti. L'indizio più certo l'ha dato Giuliano Ferrara, evocando a proposito della mossa di Berlusconi - che ci abbia messo o no lo zampino - l'ordine di aprire il fuoco sul quartier generale impartito da Mao nel 1966, che scatenò la Rivoluzione Culturale. Ferrara non esclude nessuna freccia dal proprio arco, e a suo modo ha fatto molto per il Partito Democratico, e fa moltissimo per il Partito del Popolo, ma poi, al momento di dichiararli marito e moglie, vedrà sfumare la cosa come al solito. (Si osservi di passaggio che tutte queste evocazioni di Lenin e di Mao e delle guardie rosse e, minimo minimo, di Eltsin sulla tolda del carro armato, a un anticomunista come Berlusconi devono mettere una vera allegria: vi ricordate il Martin Amis di "Koba il terribile", che non riusciva a spiegarsi, quanto a Stalin, il buonumore di transfughi e convertiti, "una risata e venti milioni di morti"). Bene: il Mao che lanciò la Rivoluzione Culturale aveva 73 anni, due più di Berlusconi oggi, era poco meno che ostaggio di un apparato che si contendeva alla sua ombra l'eredità dogmatica e la successione al potere, e rovesciò le regole del gioco. Durò al potere, più o meno, altri dieci anni, sacrificò i milioni, e alla fine non potè impedire che i superstiti dentro l'apparato riprendessero il sopravvento: tuttavia si cavò le sue soddisfazioni. Il paragone "cinese" fissa la questione nei suoi termini essenziali: Berlusconi è tutt'altro che pronto a uscire di scena, battuto, o rassegnato a passare la mano. Ha davanti a sé ancora un buon tratto di strada da fare, divertendosi al gioco della politica e dell'antipolitica, re in proprio o Queen-maker (regina è la folla). Ma soprattutto ha una gran voglia di mandare gambe all'aria il tavolo della successione naturale e ordinata. Mandare all'aria tutto, qualche ora dopo che tutti gli allestivano il funerale politico, e senza nemmeno i conforti della religione, dev'essere una vera pacchia. La Rivoluzione culturale rispondeva all’avarizia e al gusto del ripudio che anche sul letto di morte prende i veri sacerdoti del Potere. Nel nostro piccolo Berlusconi fa la stessa cosa con "la classe dirigente" del centrodestra, promuove al ruolo di Jiang-Qing la signora Brambilla — si licet - e vuoi cavarsi la soddisfazione di un estremo e autentico peronismo, lui solo sul balcone, e il popolo italiano, cioè il pubblico del Bagaglino, di sotto nella piazza. Non lo chiama "quartier generale", Berlusconi, la chiama "classe dirigente", ma il concetto è quello. Da una parte la classe dirigente e il "progetto": dall'altra lui e il popolo.
Vien quasi da dire che c'è una provvidenza. La meschinità di centrosinistra oscurava il vuoto pneumatico del centrodestra, tenuto assieme da due attese, quella melodrammatica della caduta di Prodi, e quella intrigante della giubilazione di Berlusconi. Prodi può sempre cadere, restano fior di professionisti dello sgambetto: ma anche se succedesse, ora, la giubilazione politica di Berlusconi nel centrodestra è aggiornata a data da destinarsi. Devono confidare nell'anagrafe. La vita politica del centrodestra non era che una partita differita per la successione a Berlusconi—gli affari di un signor Giulio Cesare da pugnalare e commemorare a gara. Che non sia l'intera vita politica italiana a trasformarsi in questo.
da La Repubblica del 26 novembre 2007, pag. 1
di Adriano Sofri
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