Ho infine terminato la lettura dei quaderni del cacere di Antonio Gramsci,
che con alterne vicende mi ha occupato fino alla
scorsa settimana
La lettura a mio avviso può essere effettuata in due maniere:
-come opera a sé stante nell'ambito di un discorso biografico e di
conoscenza del pensiero gramsciano
-come momento di analisi del pensiero filosofico e storico del partito
comunista negli anni '30
Se vista come opera utile ad una conoscenza del Gramsci-pensiero, essa
impressiona per la vastità degli scritti, per la diversità dei "know-how"
, per l'amore per la conoscenza, vista e vissuta quasi come una religione.
Il tutto, non dimentichiamolo, in una situazione di disagio sia psochico sia
fisico di crescente gravità. Impressiona la vitalità, quei sui continui
"controllare" "verificare" ecc.., la straordinaria lungimiranza di alcune
previsioni. Davvero da leggere "americanismo e fordismo", e certe taglienti
stoncature degli innumerevoli "nipotini di padre bresciani". L'idea di un
paese da farsi, di una fiducia "comunque" nelle potenzialità di quello che
allora poteva dirsi un paese sotto scacco. Ogni tanto rispunta fuori lo
studente di Torino, il caricaturista che in una riga didintegra il
presonaggio. Una su tutte
"Vittorio Emanuele è stato identificato come il re galantuomo, come se
galantuomo fosse un segno distintivo o raro."
Se vista invece in un ottica di critica del pensiero filosofico crociano,
inteso come idealismo di una classe plotica borghese, il formidabile
apparato storicistico si basa fondametalmente sullo sviluppo della filosfia
della praxis, vista come ultimazione dello storicismo marxiano: la realtà
appare in tutta la sua cruda verità, si è spogliata di ogni elemento
teologico.
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